martedì 18 novembre 2008

TURNO LABORATORIO

I RAGAZZI DEL PRIMO CLASSICO B SONO INVITATI A PARTECIPARE AL LABORATORIO SCIENTIFICO GIOVEDI' 20 DALLE ORE 14.30 ALLE ORE 15.30. E' OBBLIGATORIO ARRIVARE FORNITI DI CAMICE ED OCCHIALI PROTETTIVI.

La stella più vicina e quella più luminosa

Qual'è la stella più vicina?


La stella più vicina alla Terra, a parte il Sole, è la Proxima Centauri, che si trova a 40.000 miliardi di chilometri di distanza. La luce emessa da Proxima Centauri impiega 4,2 anni a raggiungerci (vedi anno luce). Se si intraprendesse un viaggio verso Proxima Centauri a bordo del TGV, il treno francese che detiene il record per la sua categoria di 515 chilometri all'ora, occorrerebbero quasi 9 milioni di anni per arrivare.

Gli astronomi stimano che esistano almeno 70.000 miliardi di miliardi di stelle (7 × 1022) nell'Universo conosciuto. Esse sono raggruppate in galassie, ognuna delle quali contiene da qualche miliardo a qualche centinaio di miliardi di stelle ed è ben separata dalle altre.

Molte stelle sono legate gravitazionalmente ad altre stelle, formando stelle doppie.

Le stelle hanno dimensioni che vanno dalle microscopiche stella di neutroni (in effetti un cadavere stellare), di appena qualche decina di chilometri, fino a supergiganti come la Stella Polare e Betelgeuse, la quale ha un diametro 1000 volte superiore a quello del Sole, ovvero un miliardo e mezzo di chil

LA STELLA PIù LUMINOSA DELLA GALASSIA

Nel nostro diagramma del cielo notturno riportiamo le stelle maggiormente visibili a occhio nudo ma la loro luminosità intrinseca (ossia la quantità di luce che emettono) è praticamente nulla se confrontata con quella emessa dalla stella "Pistola" (si si chiama proprio così!).
La stella Pistola, che potrebbe essere l'oggetto più luminoso della nostra galassia, è lontana circa 25.000 anni luce in direzione della costellazione del Sagittario. Nonostante la sua grande distanza, essa sarebbe visibile a occhio nudo con magnitudine 4 se la sua luce non fosse nascosta dietro la scura nebulosità che si trova lungo il piano galattico.

Essa ha abbastanza potere radiante da emettere due gusci concentrici di gas la cui massa è pari a quella di molte masse solari. Il guscio più esterno si estende per 4 anni luce, pari alla distanza tra il nostro Sole e la più vicina stella (Alpha Centauri), inoltre si valuta che questa stella ha una massa 100 volte più grande di quella del nostro Sole, emette una quantità di energia pari a 10 milioni di volte quella emessa dal Sole, ha un diametro pari a quello dell'orbita della Terra, e rilascia in sei secondi la stessa quantità di energia che il Sole emette in un anno.

Nonostante le sue dimensioni, la Stella Pistola fu notata solo inizi del 1990, ma la sua luminosità e la sua relazione con la nebulosa non furono definite fino al 1995. Nonostante le dimensioni bruciando a una velocità vorticosa è una stella destinata a una morte sicura, con fase di supernova, entro i prossimi tre milioni di anni al massimo.

Il telescopi più potente

Nel futuro dell’astronomia un telescopio più potente di Hubble

Il «supertelescopio» costruito con la nuova tecnologia consentirebbe di osservare direttamente la regione circostante il centro di un buco nero

Nel giro di qualche decina d’anni, l’Universo potrà essere esplorato attraverso un «occhio spaziale» talmente potente da oscurare la fama di Hubble e Chandra. Secondo una ricerca pubblicata su Nature, Webster Cash e collaboratori dell’Università del Colorado, hanno portato la tecnologia un passo più vicino a questo incredibile traguardo. Gli scienziati hanno costruito in laboratorio un «interferometro» capace di incrementare da mille a un milione di volte la risoluzione angolare dei telescopi progettati finora. Il modello sembra adatto per una rapida espansione su scala maggiore, vale a dire per la costruzione a breve termine di un «supertelescopio» più potente di Hubble. Gli scienziati della NASA sono già in fermento, anche perché una simile tecnologia consentirebbe di osservare direttamente la zona circostante il centro dei buchi neri, studiata grazie all’effetto di distorsione del campo gravitazioale sugli oggetti circostanti, ma mai direttamente osservata. Quello che manca è una sufficiente «risoluzione angolare» dei telescopi, limitata dalla dimensione della loro apertura. In sostanza, per gli strumenti attuali, più grande è il telescopio, maggiore è la risoluzione che può essere raggiunta. Hubble ha una risoluzione di circa 0,1 arcsecondi, vale a dire che per incrementare la risoluzione a 0,1 microarcsecondi il diametro di Hubble dovrebbre espandersi fino a 240 chilometri. Missione impossibile, come si può immaginare. Esiste comunque una via alternativa. Un «interferometro» infatti combina il segnale derivante da molti piccoli telescopi per creare un’immagine che risulta simile a quella proveniente da un solo enorme strumento. I segnali derivanti da ciascun telescopio «interferiscono» tra di loro per creare degli spettri che possono essere ritrasformati in immagini attraverso un’elaborazione al computer. L’interferometro di Cash utilizza due gruppi di specchi per dirigere I raggi X e consentire la creazione degli spettri di interferenza. Ma il passo dal laboratoro allo spazio dovrà attendere ancora un po’. Nelle condizioni attuali, gli esperti stimano che la costruzione di un simile apparato avrebbe bisogno una flotta di 33 sonde spaziali coperte di specchi, volanti in formazione con un errore di posizione non maggiore di 20 nanometri, oltre a una sonda spaziale per la recezione del segnale 500 chilometri sotto la squadra. Una bella sfida, ma la missione stavolta sembra verosimile. Questa almeno è l’opinione degli scienziati della NASA, che già hanno trasformato la novità in un progetto concreto per la costruzione di una sonda «pilota» da lanciare nel 2015. Il nuovo gioiello, sebbene impostato come un lavoro esplorativo, promette già una risoluzione mille volte superiore a quella del Chandra X-ray Observatory. Barbara Bernardini

Il cielo al femminile

IL CIELO AL FEMMINILE; LE DONNE, LA SCIENZA E L'ASTRONOMIA (Pietro Musilli - 2008)
I contributi delle donne alla scienza ed alla astronomia (di M. Hack - 2000)

La storia delle donne nella cultura e nella vita civile è stata una storia di emarginazione fino alla fine dell'Ottocento e in gran parte ancora fino alla metà del Novecento, almeno nei paesi industrializzati. In molti paesi in via di sviluppo, salvo rare eccezioni, le donne sono ben lontane non solo dall'aver raggiunto la parità con l'altro sesso, ma anche dal vedere loro riconosciuti i più elementari diritti di esseri umani. Quali possono essere le cause di questa situazione che risale indietro nei secoli? Forse già nelle epoche preistoriche, la forza fisica necessaria per sopravvivere, le numerose gravidanze e il lungo periodo di allattamento e di cura della prole hanno portato alla differenziazione dei compiti. Oggi, i progressi della scienza e della medicina, e le conseguenti applicazioni tecnologiche hanno annullato la condanna biblica - uomo lavorerai con fatica, donna partorirai con dolore - almeno nei paesi industrializzati.

Per secoli le donne che potevano avere accesso all'istruzione erano quelle rinchiuse nei conventi. Forse per questo le donne che sono emerse nel passato erano soprattutto umaniste, pittrici, scrittrici, poetesse, ma molto più raramente scienziate. Infatti chi ha attitudini artistiche o letterarie può emergere anche senza una preparazione specifica, mentre le scienze, e in particolare le cosiddette scienze "dure" come matematica e fisica richiedono una preparazione di base, senza la quale è quasi impossibile progredire. Solo quelle poche favorite dall'avere un padre, un fratello o un marito scienziato disposto a condividere le proprie cognizioni, potevano farsi una cultura scientifica. Basta ricordare che ancora all'inizio del XX secolo in molti paesi europei alle ragazze era precluso l'accesso alle università ed anche ai licei.

Perciò le donne, escluse dalle università, escluse dall'educazione scientifica, sono emerse là dove potevano emergere. Così è sorto il pregiudizio secondo cui le donne sarebbero più adatte alle materie letterarie e linguistiche che non a quelle scientifiche. Le stesse ragazze crescono in mezzo a questi pregiudizi e se ne lasciano influenzare, e scelgono le facoltà umanistiche anche contro le loro naturali inclinazioni, contribuendo così a rafforzare i pregiudizi stessi. Comunque oggi cresce sempre di più il numero di ragazze che scelgono materie ritenute tipicamente maschili come ingegneria.

Malgrado le difficoltà incontrate, non sono poche le scienziate che hanno portato importanti contributi allo sviluppo della scienza. La storia ci tramanda i nomi di alcune famose scienziate. Ce ne furono una ventina nell'antichità, fra cui emerge il nome della matematica Ipazia; solo una decina nel medioevo, soprattutto nei conventi, quasi nessuna tra il 1400 e il 1500, 16 nel 1600, 24 nel 1700, 108 nel 1800. Oggi solo nel campo dell'astronomia sono più di 2000, ed in ogni campo dei sapere le ricercatrici universitarie superano il 50%, con punte ded'80% nelle facoltà umanistiche, del 60% in quelle di scienze biologiche, dal 30 al 40% nelle scienze abiologiche, più dei 50% nelle matematiche, mentre sono ancora al di sotto dei 20% in facoltà come ingegneria e agraria.

Fra le matematiche va ricordata la già citata Ipazia (370-415 d.C.), figlia del matematico e filosofo Teone. Diventò capo di una scuola platonica di Alessandria d'Egitto frequentata da molti giovani. Fu uccisa barbaramente da monaci, forse anche perché tanta genialità matematica in una donna poteva sembrare indice di empietà. Nel 1700 Maria Gaetana Agnesi (1718-1799) fu la prima donna ad essere chiamata a ricoprire una cattedra universitaria, all'Università di Bologna, e Sophie Germain (1 776-183 1) fu una riconosciuta esperta di teoria dei numeri e di fisica. Nel XIX secolo ci sono numerose grandi matematiche, fra le quali emergono soprattutto Sofia Kovaleskaja (1850-1891), professore all'Università di Stoccolma, e Emmy Noether (1882-1935), fondatrice dell'Algebra moderna. Fra le matematiche italiane di questo secolo ricordo Pia Nalli (1866-1964) professore ordinario di analisi matematica all'università di Cagliari e poi di Catania; Maria Pastori (1895-1975) ordinario di Meccanica Razionale all'università di Messina, Maria Cibrario Cinquini (1905-1992), ordinario di Analisi matematica a Cagliari e professore emerito dell'università di Pavia, Maria Biggiogero Masotti ordinario di geometria presso il Politecnico di Milano.

Fra le fisiche e le astrofisiche vanno ricordate, naturalmente Marie Sklodwska Curie (1867-1934), premio Nobel per la fisica nel 1903 e per la chimica nel 1911, e prima donna professore alla Sorbona e la figlia Irene Curie (1897-1956) premio Nobel per la chimica nel 1935; Lise Meitner (1878-1856) premio Nobel per la chimica nel 1935 la quale scopre il fenomeno della fissione nucleare ed è la prima donna ad avere una cattedra universitaria di fisica in Germania; Marie Goeppert Mayer (1906-1972) premio Nobel per la fisica nel 1963 per la sua teoria sui "numeri magici" che determinano la stabilità degli atomi; Wu Chieng-Shiung (1913-1997), professore di fisica alla Columbia University, scopritrice della non conservazione della parità nelle interazioni deboli.

Fra le astronome e astrofisiche va ricordata Caroline Herschel (1750-1848) che insieme al fratello William iniziò lo studio fisico del cielo, occupandosi di quello sfondo di stelle fino allora considerato poco più di uno scenario su cui si muovevano i pianeti. A loro si deve lo studio delle nubi interstellari, la scoperta di regioni apparentemente prive di stelle, che oggi sappiamo essere regioni ricche di polveri che ci nascondono le stelle retrostanti, e lo studio della distribuzione delle stelle sulla volta celeste.

Maria Mitchell (1818-1889) è stata la prima famosa astronoma americana, docente di astronomia al Vassar College e direttrice di quell'osservatorio, che ha preso il suo nome.

Un terzetto di astronome americane che hanno legato il loro nome a scoperte e ricerche fondamentali per la moderna astrofisica sono Henrietta Swan Leavitt (1868-1921), Anne Cannon (1863-1941) e Antonia Maury (1866-1952). La prima scoprì la relazione che lega il periodo di variazione di luce di una classe di stelle variabili dette "Cefeidi" al loro splendore assoluto, facendo di questa classe di stelle uno dei migliori mezzi per la determinazione delle distanze delle galassie. Alla seconda si deve la classificazione degli spettri di più di 225.000 stelle; il risultato del suo lavoro è raccolto nel poderoso catalogo "Henry Draper" (dal nome dei finanziatone dell'opera) che è ancora oggi largamente consultato. La terza scoprì alcune caratteristiche degli spettri stellari, che permettevano di stabilire lo splendore assoluto di una stella, e quindi - misurato lo splendore apparente - risalire alla distanza. Essa ha anticipato di almeno due decenni il metodo di determinazione delle distanze dal semplice studio dello spettro.

Una grande astrofisica, iniziatrice dei metodi di studio delle atmosfere stellari e della determinazione della loro composizione chimica è stata Cecilia Payne Gaposchkin (1890-1979). Iniziatrice dello studio dell'evoluzione chimica della Galassia è stata una giovane astrofisica, Beatrice Tinsley, scomparsa prematuramente una ventina di anni fa. Oggi sono numerosissime le astrofisiche di fama internazionale che guidano gruppi di ricerca nei più svariati campi, dalla fisica stellare alla cosmologia, e delle più svariate nazionalità. Si può stimare che in tutto il mondo rappresentino dal 25 al 30% di tutti gli astronomi e astrofisici.

Altrettanto numerose sono le scienziate nel campo della biologia e delle scienze mediche, molte insignite di premio Nobel. Per tutte ricordiamo Rita Levi- Montalcini (1909) premio Nobel per la medicina nel 1986.

Sebbene oggi i contributi delle donne alla scienza vengano riconosciuti, resta il fatto che le scienziate per emergere devono generalmente lavorare di più dei loro colleghi e devono ancora superare numerosi pregiudizi, che, contrariamente a quanto si crede, sono maggiori nei paesi anglosassoni che non in quelli latini.

Spesso mi viene chiesto se ho incontrato molte difficoltà nel corso della mia vita scientifica. Ritengo che molti degli ostacoli di cui si lamentano parecchie ricercatrici dipende anche dall'educazione ricevuta che, almeno fino a qualche decennio fa, tendeva a fare delle bambine persone arrendevoli e servizievoli, poco combattive e desiderose di protezione. Oggi mi sembra che le cose vadano cambiando, la vita e l'educazione comune a bambini e bambine li lascia più liberi di sviluppare le proprie attitudini naturali, senza imporre loro condizionamenti dovuti al sesso.

lo ho avuto la fortuna di avere una famiglia in cui babbo e mamma erano perfettamente eguali, si dividevano i compiti in piena parità, e che non mi hanno mai imposto comportamenti o giocattoli legati a stereotipi sessuali. Anche lo sport che ho praticato per parecchi anni mi ha aiutato a sviluppare quella competitività che e necessaria per riuscire nell'atletica come nella scienza, per vincere sportivamente, allenandosi e studiando e avendo la costanza di perseguire lo scopo di battere un record o di ottenere un risultato scientifico, senza scoraggiarsi davanti agli insuccessi, perseverando con costanza.

Credo perciò che l'ambiente familiare in cui ho avuto la fortuna di nascere sia stato estremamente importante per darmi fiducia nelle mie possibilità, e per non provare complessi di inferiorità che ho spesso notato in colleghe della mia generazione e anche più giovani.

Malgrado i grandi progressi fatti dalle donne, ci sono ancora notevoli disparità nel mondo del lavoro, della politica e della ricerca. Nelle università per esempio le ricercatrici sono ormai più della metà di tutti i ricercatori, ma appena si passa al livello superiore, quello dei professori associati, le donne sono meno del 30% e al più alto livello dei professori ordinari sono appena il 10%. In politica è a tutti nota la scarsa rappresentanza femminile alla camera dei deputati e al senato. Al governo dei comuni sono ancora una minoranza le donne sindaco, mentre sono frequenti gli assessorati alla cultura assegnati a donne, il che mi fa malignamente pensare quanta poca importanza i politici tendono ancora a dare alla cultura, ritenuta un trascurabile centro di potere locale. Quasi sempre si attribuisce questa scarsa presenza femminile nei livelli più alti all'impegno familiare, alle cure dei marito e dei figli, e si chiede un maggiore impegno dello stato nel fornire asili nido, scuole materne, scuole a tempo pieno. Giustissimo! Però rarissimamente si afferma il diritto delle donne e il dovere degli uomini di dividersi al 50% le cure familiari, dalle più umili alle più importanti, anche se la legislazione familiare dà alle donne la possibilità di rivendicare questa reale parità. Sta alle giovani donne educare i propri compagni e ai giovani uomini di incitare le loro compagne ad affermarsi nella vita.

Comunque ritengo che il crescente numero di donne affermate nella scienza, nella politica, nello sport e in tutti i campi dell'attività umana fornisca quei modelli che finora mancavano alle bambine, e che possono dar loro fiducia e stimoli ad eguagliarle.


(A cura di Margherita Hack - 2000)

IL CIELO AL FEMMINILE; LE DONNE, LA SCIENZA E L'ASTRONOMIA (Pietro Musilli - 2008)

BUCHI NERI: MOSTRI OSCURI DEL CIELO

Buchi neri, mostri oscuri del cielo

Se una stella è molto massiccia, più di 6-7 volte il Sole, quando esplode come supernova dà luogo all'oggetto più strano e affascinante del cosmo: un buco nero. Il nucleo della stella crolla sotto il proprio peso e non riesce a controbilanciarlo nemmeno comprimendosi al massimo. Niente può fermare la caduta della materia verso il centro della stella, finché l'intera massa del nucleo non si concentra in un unico punto! L'oggetto che si forma, il buco nero, è qualcosa di così strano e così estremo che non può essere descritto con le leggi della fisica che valgono sulla Terra.
La gravità di un buco nero, infatti, è così grande da comprimere la materia che lo compone fino ad una densità praticamente infinita. Essa si trova quindi in uno stato fisico a noi sconosciuto.
La forza di attrazione gravitazionale di un buco nero è immensa: qualunque cosa che gli passi troppo vicino viene catturata e vi cade dentro, senza poterne più uscire. Nemmeno un raggio di luce, che è la cosa più veloce che esista in natura, può sfuggire a questo mostro: non potendo emettere radiazione, esso è completamente oscuro e non può essere "visto".
Attenzione però. Spesso si pensa che un buco nero possa inghiottire tutto quello che gli sta intorno: in realtà, l'attrazione gravitazionale che esso esercita su un corpo dipende dalla distanza del corpo stesso: solo se un corpo si avvicina troppo viene catturato da questo gigantesco imbuto spaziale.



Il disco di polvere che circonda un enorme buco nero. Misurando la velocità del gas si può sapere quanto è intenso il campo gravitazionale del buco nero e quindi conoscere la sua massa. (HST)
Clicca sull'immagine per vederla più grande Come per ogni stella o pianeta, anche per il buco nero si può definire la velocità di fuga di un corpo ad una certa distanza R. Si tratta della minima velocità che un oggetto posto alla distanza R deve avere, per poter sfuggire all'attrazione gravitazionale del buco nero. Allo stesso modo, possiamo definire la minima distanza R, alla quale un oggetto dotato di una certa velocità, può ancora sfuggirgli.

Per un raggio di luce, questa distanza identifica una specie di "superficie" del buco nero, anche se in realtà il buco nero non ha dimensioni. La superficie prende il nome di "orizzonte degli eventi": un raggio di luce che passa subito al di fuori di questa regione, viene incurvato molto fortemente dalla forza gravitazionale del buco nero, ma riesce a proseguire il suo cammino. Se invece vi entra, non potrà più uscirne.
La posizione dell'orizzonte degli eventi dipende dalla massa del buco nero: se la sua massa è il doppio di quella del Sole, il raggio di questa regione invisibile è di appena 6 Km.

I buchi neri sono gli unici oggetti celesti che non possono essere studiati direttamente in alcun modo, dato che non emettono radiazione di nessun tipo. Solo le nostre conoscenze di fisica e matematica ci permettono di immaginare come sono fatti. La loro esistenza, infatti, è prevista dalla teoria della Relatività generale di Einstein.

Un buco nero in un sistema binario risucchia gas dalla stella compagna.
Tuttavia, esistono delle evidenze indirette dell'esistenza dei buchi neri. Quando un buco nero fa parte di un sistema binario di stelle, esso strappa il gas più esterno della compagna e lo risucchia. Questo gas si mette in rotazione, formando un disco attorno al buco nero, che ruota anch'esso sul proprio asse; da questo disco, pian piano cade dentro al buco nero. Puoi vederlo nel disegno qui sopra.



Cygnus X-1 (ASI)
Durante la caduta, la materia raggiunge altissime temperature ed emette raggi X: è proprio attraverso questa radiazione che un buco nero può essere rivelato. Al centro della fotografia puoi vedere la sorgente di raggi X detta Cygnus X-1, che si trova nella costellazione del Cigno. Si tratta di una coppia di stelle: una gigante e un buco nero.
Un altro fenomeno che permette di scorgere indirettamente un buco nero è l'effetto di "lente gravitazionale" che esso esercita. In condizioni normali, la radiazione percorre una traiettoria rettilinea; quella che passa abbastanza vicino ad un buco nero, invece, viene incurvata a causa del suo intenso campo gravitazionale.
L'effetto ottico di questa curvatura è quello che vedi nel disegno.
Se un buco nero si trova tra noi ed un oggetto, produce due o più immagini dello stesso oggetto.
A volte le immagini prodotte da una lente gravitazionale sono piu' di due. In questa fotografia puoi vedere l'immagine multipla di un oggetto lontanissimo dello spazio, detto "quasar". Una lente gravitazionale particolarmente massiccia si trova tra noi e il quasar, producendo quella che viene detta "croce di Einstein". (NASA/STScI)

lunedì 17 novembre 2008

Una supernova per Elisa!
Scritto da Gabriella Bernardi il 27 Febbraio 2008



Elisa Londero

“Faccio parte del progetto [1] galassia a spirale UGC 2519. Ovviamente per me è stata una soddisfazione enorme essendo la prima che scopro e dopo così poco tempo dall’inizio delle mie ricerche. Queste ultime prevedono un confronto tra le immagini di archivio e quelle riprese dal [2] telescopio la notte precedente facendo attenzione a notare anche i cambiamenti più sottili. Credo che dai più sarebbe giudicato un lavoro terribilmente noioso, tuttavia l’ostinazione, la pazienza e l’attenzione impiegate, vengono ricompensate prima o poi dal traguardo di una scoperta. Spero che questa sia l’inizio di una lunga serie.”

L’autrice di [3] questo post è Elisa Londero, una giovane ragazza di Gemona del Friuli che frequenta il corso di laurea specialistica in Fisica della Materia a Trieste.

La notte del 13 Febbraio 2008 succede qualche cosa di strano…vuoi raccontare i dettagli della scoperta di SN2008ak e spiegarci che cos’è il progetto CROSS?

Il progetto [4] supernovae extragalattiche. A questo proposito sono state selezionate oltre 2500 galassie sia a spirale che ellittiche, tra le più massicce dell’[5] emisfero boreale che costituiscono le immagini di archivio che ciascun partecipante al progetto ha il compito di confrontare attraverso un programma, con le immagini ottenute la notte precedente dal [2] telescopio remotizzato di Cortina d’Ampezzo. In condizioni ottimali (cielo sereno e assenza di problemi tecnici) è possibile riprendere dalle 300 alle 400 galassie per notte.

L’immagine contenente la supernova SN2008ak è stata realizzata nella notte tra il 13 e il 14 Febbraio. Ho svolto il lavoro di analisi in parte il 14, poi a causa di altri impegni sono stata costretta a concludere e spedire il resoconto ai coordinatori del CROSS (A. Dimai e M. Migliardi) il giorno 15.

Quando si scopre una supernova, cosa si deve fare per comunicarla al mondo, ovvero quali sono le azioni burocratiche?

Prima di tutto ci si deve accertare che non si tratti di qualche [7] pianeta minore o di qualche asteroide di passaggio. Fugati questi dubbi, si fa un’immagine di conferma. Nel mio caso, avendo inviato il resoconto un po’ in ritardo, non e’ stato possibile utilizzare la notte tra il 14 e il 15 Febbraio per effettuare un’ulteriore ripresa della [8] galassia col nostro [2] telescopio.

Tuttavia, trattandosi con buona probabilità di una supernova, è stata mandata una segnalazione al CBAT, che è l’organo che conferma le scoperte astronomiche mondiali, indicando scopritore, programma di ricerca, caratteristiche del [2] telescopio utilizzato, [11] magnitudine, coordinate dell’oggetto e posizione rispetto al nucleo della [8] galassia e specificando che l’immagine di conferma sarebbe stata fatta il prima possibile. Così è stato la sera del 15 Febbraio, quando la SN2008ak è stata definitivamente confermata.

Si è potuto così dare la notizia ufficiale al CBAT e dopo poche ore è giunta l’ufficializzazione da parte dello stesso. In seguito la supernova è stata catalogata: è di tipo II, vale a dire una stella supermassiccia che è esplosa al termine della propria esistenza.


Com’è nata la tua passione e l’impegno di astrofila presso l’Associazione Astronomica Cortina d’Ampezzo (www.cortinastelle.it)?

La passione risale agli anni in cui frequentavo il liceo “L. Magrini” di Gemona del Friuli. La professoressa di scienze, l’ultimo anno, ci aveva messi in [14] contatto con l’AFAM (Associazione Friulana di Astronomia e Meteorologia) di Remanzacco presso cui ho potuto completare la tesina di maturità riguardante le [15] supernovae di tipo Ia come indicatrici di distanze cosmologiche. Inoltre tra le attività del liceo erano previste delle serate osservative con un [2] telescopio che la direzione didattica aveva deciso di acquistare proprio per fare in modo che l’astronomia non venisse studiata solo sui banchi di scuola.

L’impegno invece presso l’AAC di Cortina d’Ampezzo è nato dalla proposta di una futura [17] astrofisica, Giulia Iafrate, compagna di studi alla laurea triennale, che partecipava attivamente al programma già da parecchi mesi.


Quali sono le tue ambizioni future sia sul fronte dell’Associazione Astronomica Cortina che Universitario? I due impegni viaggiano su binari paralleli?

Diciamo che con l’AAC è stato un buon inizio, speriamo che a questa possa seguire qualche altra scoperta. Per me la ricerca di [15] supernovae è ormai un passatempo, un momento di distrazione tra un impegno e l’altro della giornata. Per quanto riguarda il resto, tra poco concluderò il percorso di studi in Fisica della Materia quindi quello dell’astronomia resterà soltanto un hobby entusiasmante, un impegno da portare avanti a livello amatoriale.

Ringraziamo molto Elisa per la velocità con cui ci ha risposto, e per concludere non posso fare a meno di considerare che il progetto CROSS porti fortuna alle astrofile: Edi Dal Farra fu la prima donna italiana a scoprire una supernova: la SN2001dp. Però lei condivise questo primato con il suo compagno Marco Migliardi, mentre Elisa risulta la seconda donna italiana a fare una scoperta in questo campo, ma la prima a realizzarla in modo del tutto autonomo.

Esempi come questi fanno capire come gli appassionati del cielo possano dare contributi significativi all’astronomia, cosa più unica che rara nelle scienze moderne e che probabilmente costituisce una ragione della sua popolarità presso il pubblico. Speriamo quindi che tali scoperte incoraggino altre persone ad avvicinarsi a questo affascinante mondo e chissà se fra gli assidui lettori e lettrici di questo sito non si nasconda qualche futuro protagonista di ulteriori scoperte.

ARISTARCO DA SAMO: una verità inascoltata

Aristarco di Samo

Astronomo e fisico, Aristarco, è noto soprattutto per avere per primo introdotto una teoria astronomica nella quale il Sole e le stelle fisse sono immobili mentre la Terra ruota attorno al Sole percorrendo una circonferenza. Sappiamo inoltre che Aristarco concordava con Eraclide Pontico nell'attribuire alla terra anche un moto di rotazione diurna attorno ad un asse inclinato rispetto al piano dell'orbita intorno al Sole (l'ultima ipotesi giustificava l'alternarsi delle stagioni).
L'opera nella quale Aristarco illustra la sua teoria , sulla quale abbiamo solo brevi testimonianze (la più importante delle quali è di Archimede (nell'Arenario)) non ci è pervenuta. L'obiezione che gli mossero i suoi contemporanei fu scientifica e non ideologica, come invece fu nel caso di Galileo : si chiesero per quale motivo le stelle fisse non modificassero la propria posizione nella volta celeste nel corso dell'anno, come invece avrebbero dovuto fare se la Terra fosse stata in movimento. Archimede riporta che Aristarco superò l'obiezione ipotizzando che la distanza tra la Terra e le stelle fisse fosse infinitamente maggiore del raggio dell'orbita annuale terrestre, e in effetti è tanto maggiore da evitare ogni effetto di parallasse misurabile con gli strumenti dell'epoca (e anche delle epoche successive fino al XIX secolo). L'idea che le stelle siano ad una distanza enormemente superiore a quella del Sole è ripresa da altri autori (ad esempio da Cleomede).
Secondo la testimonianza di Plutarco, l'eliocentrismo (che Aristarco aveva accettato come base della sua teoria perché gli permetteva di giustificare i moti osservati dei pianeti) era stato successivamente dimostrato da Seleuco di Seleucia. La teoria eliocentrica fu però rifiutata con forza, quattro secoli dopo Aristarco, da Claudio Tolomeo, le cui concezioni dominarono incontrastate la tarda antichità e il medioevo.

IPPARCO DI NICEA

Ipparco di Nicea


Ipparco nacque a Nicea (l'odierna Iznik in Bitinia, Turchia); la maggior parte delle informazioni sulla vita e le opere di Ipparco vengono dall'Almagesto di Tolomeo (II secolo), e da riferimenti minori in Pappo e Teone (IV secolo) nei loro rispettivi commentari sull'Almagesto, e in opere di Plinio il Vecchio (Geografia e Storia Naturale - I secolo).
Tolomeo gli attribuisce osservazioni astronomiche dal 147 a.C. al 127 a.C.; anche osservazioni più antiche, a partire dal 162 a.C., possono essere attribuite a lui. La data della sua nascita (190 a.C. circa) è stata calcolata da Delambre proprio in base al lavoro di Ipparco. Allo stesso modo, dall'esistenza di pubblicazioni sulle analisi delle sue ultime osservazioni si suppone che Ipparco deve essere vissuto oltre il 127 a.C. Per il suo lavoro sappiamo anche che ottenne informazioni da Alessandria e dalla Babilonia, ma non è noto se e quando ne abbia visitato i luoghi.
Non se ne conosce l'aspetto in quanto non esistono suoi ritratti. Sebbene venga raffigurato su monete coniate in suo onore, queste appartengono a un'epoca ben successiva, tra il II e III secolo.
Si presume che sia morto nell'isola di Rodi, dove trascorse gran parte della sua vita matura: Tolomeo gli attribuisce infatti osservazioni da Rodi nel periodo che corre tra il 141 e il 127 a.C.
L'osservazione astronomica [modifica]

Fu il primo greco a sviluppare accurati modelli per spiegare il moto del Sole e della Luna, servendosi delle osservazioni e delle conoscenze accumulate nei secoli dai Caldei babilonesi.
È inoltre stato il primo a compilare una tavola trigonometrica, che gli permetteva di risolvere qualsiasi triangolo.
Grazie alle sue teorie sui moti del sole e della luna e alle sue nozioni di trigonometria, è stato probabilmente il primo a sviluppare un affidabile metodo per la previsione delle eclissi solari. Il suo operato include la scoperta della precessione degli equinozi, la compilazione di un celebre catalogo stellare e, probabilmente, l'invenzione dell'astrolabio. Fu proprio l'osservazione delle discordanze tra il proprio catalogo e quello compilato da Timocaris e Aristilio di Alessandria (290 a.C.) a fornirgli l'indizio che lo condusse alla scoperta del fenomeno precessivo dell'asse terrestre.
Le opere [modifica]
Ipparco lasciò diverse osservazioni sugli astri e redasse una lista dei suoi lavori principali, in cui menzionava circa 14 libri. Ma poiché gli amanuensi della tarda età imperiale preferirono ai suoi scritti quelli successivi di Tolomeo, quasi tutta la sua opera è andata perduta. L'unico suo lavoro pervenuto ai giorni nostri è un commentario critico in due volumi su un poema popolare di Arato di Soli basato sul lavoro di Eudosso di Cnido. Il commentario è stato tradotto in latino da padre Petau che ne ha dato una eccellente edizione nella sua uranologia (Parigi, 1650 in-folio).
Ipparco è riconosciuto come il padre della scienza astronomica. È spesso citato come il più grande astronomo osservativo greco, e molti lo reputano il principale astronomo dei tempi antichi, sebbene Cicerone desse la sua preferenza ad Aristarco di Samo. Altri destinano questo posto a Tolomeo di Alessandria.
Il catalogo astrale [modifica]
Nel suo primo catalogo stellare, Ipparco inserì circa 1080 stelle, registrando per ognuna la latitudine e la longitudine sulla sfera celeste, con la precisione permessa dall'assenza di orologi, di telescopio o di altri strumenti moderni. Ipparco non trascurò di indicare la luminosità degli astri, che utilizzo quale parametro per una classificazione che assegnava ciascuna stella in sei gruppi. Al primo gruppo appartenevano le stelle di prima grandezza, al secondo gruppo quello un po' più deboli, e via via fino al sesto gruppo, al quale appartenevano le stelle più deboli visibili in una notte serena senza Luna da un uomo dalla vista perfetta. Questo più che bi-millenario sistema di misurazione della luminosità (magnitudine) degli astri, leggermente modificato nel corso del 1800, è utilizzato ancora oggi.
Gli studi geografici [modifica]

Oltre che astronomo, Ipparco è stato anche un grande geografo. Strabone, nella sua Geografia, ci testimonia la sua proposta di calcolare le differenze di longitudine con metodi astronomici, misurando le differenze tra i tempi locali di osservazione di una stessa eclissi lunare. Sembra inoltre che avesse dedotto l'esistenza di un continente che separava l'oceano Indiano e l'oceano Atlantico, sulla base delle testimonianze sulle differenze fra le maree del Mare arabico, studiate da Seleuco di Seleucia, e quelle delle coste atlantiche di Spagna e Francia. Senza bisogno di caravelle, grazie ad una semplice deduzione, Ipparco aveva intuito l'esistenza dell'America.
Ipparco aveva anche scritto un trattato sulla gravità, Sui corpi spinti in basso dal proprio peso, sul quale abbiamo qualche informazione da Simplicio. Qualche studioso ha ipotizzato che all'interesse di Ipparco per la gravità non fossero estranei i suoi interessi astronomici.
Atlante Farnese e catalogo di Ipparco [modifica]



L'Atlante Farnese, copia romana di originale ellenistico, conservato al Museo archeologico di Napoli.
Non tutto il catalogo stellare di Ipparco sembrerebbe perduto. Lo ha annunciato, il 10 gennaio 2005, Bradley E. Schaefer, astrofisico della Louisiana State University a Baton Rouge in un convegno dell'American Astronomical Society tenutosi a San Diego in California[1]. Seguendo una sua ipotesi, ha rilevato le configurazioni delle costellazioni presenti in rilievo sul globo dell'Atlante Farnese (copia romana del II secolo, da un originale greco,) conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Ha poi ricostruito la posizione occupata dalle costellazioni nel cielo osservato da Ipparco, all'incirca nel 129 a.C. Il risultato è stato un'ottima coincidenza tra le previsioni astronomiche moderne e le posizioni rilevate dall'Atlante Farnese, che lo hanno indotto ad individuare nel famoso e perduto catalogo di Ipparco la fonte attinta dallo scultore dell'epoca.[2]
Si tratta inoltre di un'altra prova indiretta dell'esistenza del catalogo. La prima era stata fornita dallo stesso autore che aveva dimostrato l'incorporazione, nell'Almagesto, di una parte del catalogo di Ipparco. In questo modo le discrepanze in esso riscontrabili, circa la posizione di alcune stelle, diventavano facilmente spiegabili spostando il punto di osservazione a Rodi.

CEFEIDI (leggere prima il manuale)

Le cefeidi

Da Ipparco in poi, lo splendore di una stella è stato indicato dalla magnitudine: più una stella è luminosa, minore è la sua magnitudine. Ipparco definì le venti stelle più luminose come stelle di prima magnitudine, mentre quelle un po’ più deboli le chiamò di seconda magnitudine; e così via, fino alla sesta magnitudine, cui appartenevano le stelle a malapena visibili. Nel 1856 tale sistema fu trasformato in un preciso sistema quantitativo (formula di Pogson), basato sul fatto che una stella di prima magnitudine è 100 volte più luminosa di una di sesta. In base a ciò, il rapporto tra due magnitudini successive è uguale a 2,512. Queste sono le magnitudini apparenti, cioè ciò che vediamo dal nostro punto di osservazione. Le magnitudini assolute sono stabilite calcolando la luminosità che la stella avrebbe se fosse posta ad una distanza standard di 10 parsec (1 parsec=3,26 a. l.).

Nel 1912 H. Leavitt scoprì nella piccola Nube di Magellano 25 cefeidi, di ognuna delle quali determinò il periodo. Più il periodo era lungo, più la stella era luminosa. Tale relazione non era mai stata notata per le cefeidi più vicine perché di queste conoscevamo solo la magnitudine apparente, dato che non erano note le distanze. Nella Nube di Magellano, trovandosi tutte le stelle a distanze da noi praticamente uguali, le magnitudine apparenti possono essere considerate una misura relativa delle magnitudine assolute. Così la relazione rilevata poteva essere considerata valida: il periodo delle cefeidi aumenta all’aumentare della magnitudine assoluta. Fu quindi possibile stabilire una curva periodo-luminosità.

Se tutte le cefeidi dell’universo si comportano allo stesso modo, esse possono rappresentare un parametro relativo per misurare le distanze. Osservate due cefeidi di uguale periodo, si può supporre che abbiano uguale magnitudine assoluta, e quindi, se una cefeide appare quattro volte più luminosa di un’altra di uguale periodo, quest’ultima sarà distante il doppio da noi, dato che la luminosità apparente diminuisce col quadrato della distanza.

Purtroppo, anche la più vicina delle cefeidi, la Stella Polare, era troppo lontana perché determinarne la parallasse con i mezzi di allora. Quindi, per stabilire le distanze delle cefeidi più vicine, dalle quali ricavare una scala di distanze per le più lontane, si dovette ripiegare su metodi più indiretti e meno certi. Nel 1913 Hertzsprung stabilì che una cefeide con un periodo di 6,6 giorni aveva una magnitudine assoluta di –2,3: e in base a questo risultato, sulla curva della Leavitt, determinò la magnitudine assoluta di tutte le cefeidi. Qualche anno dopo Shapley corresse il valore di Hertzsprung a 5,96 giorni (sempre per una cefeide di magnitudine assoluta –2,3). Nel 1918 Shapley cominciò ad osservare le cefeidi della nostra galassia, nel tentativo di determinare con questo nuovo metodo le dimensioni della galassia stessa. A tal fine si occupò degli Ammassi Globulari, le cui distanze valutò tra i 20.000 e i 200.000 a. l.

Nel 1924, Hubble osservò alla periferia di M31, la Grande Galassia di Andromeda, alcune cefeidi, che permisero di dimostrare come quella che ancora molti astronomi credevano una nebulosa fosse in realtà un’altra galassia come la nostra Via Lattea, distante oltre un milione di a. l. Nel 1942 Baade, godendo di un cielo particolarmente buio grazie all’oscuramento di Los Angeles dovuto alla guerra, scoprì in M31 un’insospettata differenza tra le stelle delle zone più interne e quelle più esterne, giungendo alla differenziazione tra le due popolazioni stellari oggi note, la Popolazione I e la Popolazione II; in seguito, quando entrò in funzione lo specchio da 200 pollici, Baade confrontò le cefeidi di Popolazione II, situate negli ammassi globulari, con quelle del nostro braccio di spirale (Popolazione I): risultò che quelle di Popolazione II seguivano effettivamente la curva stabilita dalla Leavitt, mentre quelle di Popolazione I hanno una luminosità tra quattro e cinque volte maggiore di una di Popolazione II con lo stesso periodo. Ciò fece aumentare la stima della distanza della galassia di Andromeda da meno di un milione a due milioni e mezzo di anni luce. Oggi le misurazioni astrometriche del satellite Hipparcos hanno consentito di misurare le parallassi di stelle distanti centinaia e centinaia di anni luce: ciò ha reso possibile misurare esattamente la distanza di molte cefeidi (compresa la gloriosa d Cephei), per cui possiamo ben dire che le distanze ottenute grazie al metodo delle cefeidi sono sicuramente affidabili.

Le cefeidi presentano periodi (il periodo è l’intervallo tra due massimi successivi) che vanno da poche ore fino a circa 50 giorni. La maggior parte dei periodi ha una lunghezza compresa tra i 5 e gli 8 giorni; le cefeidi di periodo più corto, meno di un giorno, sono classificate in una categoria a parte, chiamata delle variabili degli ammassi a causa della loro abbondanza negli ammassi globulari. La brevità del periodo, comunque, non è la sola differenza tra queste stelle e le cefeidi classiche: i tipi spettrali delle prime, infatti, sono limitati ad A ed F, e le stelle sono molto più piccole e meno luminose di queste ultime. Il prototipo delle variabili degli ammassi è RR Lyrae (vedi scheda). Un’ulteriore sottoclasse è quella delle cosiddette cefeidi nane o ultra-short period cepheides, strani oggetti a periodo ancor più corto delle RR Lyrae: i tipici rappresentanti di questo gruppo, CY Aqr e SX Phe, hanno rispettivamente periodi di 88 e 79 minuti. Anche le stelle del tipi d Scuti hanno periodi cortissimi, ma ampiezze molto inferiori.

Vale la pena di sottolineare che il periodo di una cefeide è generalmente così regolare da sembrare un raffinato meccanismo ad orologeria, e in molti casi è noto alla frazione di secondo. L’ampiezza della variazione visuale di una cefeide è mediamente abbastanza meno di 1 magnitudine, anche se se ne conoscono alcune che variano di circa 1,5 magnitudini. Un po’ più elevata, normalmente, è la variazione fotografica. Ancora inferiore, invece, è la variazione nell’infrarosso.

domenica 9 novembre 2008

Il Seicento astronomico

Il Seicento astronomico

Tre personaggi straordinari hanno segnato questo tempo, tre personaggi che, se solo avessero unito i loro cervelli, la loro passione, la loro infaticabile dedizione all’astronomia, avrebbero…….. chissà.
Parliamo di Tycho Brahe, Keplero e Galileo Galilei.
Prima di parlare delle ricerche di questi tre grandi, riflettiamo un attimo su quella che era la conoscenza astronomica fino a quel momento. Poche cose si possono dire sul cielo stellato senza far uso di strumenti, si può studiare la posizione delle stelle e dei pianeti e la loro luminosità. Niente si può dire invece sulla natura e sulle dinamiche dei corpi celesti. Le stelle, a differenza dei pianeti, ci appaiono fisse nelle loro distanze reciproche e raggruppate in modo da formare le cosiddette costellazioni da sempre studiate dall’uomo. Ma perché le stelle ci appaiono fisse se la Terra gira intorno al Sole? Non dovremmo vedere le stelle spostarsi nel senso opposto al moto di rivoluzione, così come vediamo spostarsi il paesaggio dal finestrino di un treno in corsa? No, non le vediamo spostarsi perché sono lontanissime e lo spostamento terrestre (o meglio il diametro dell’orbita terrestre) è trascurabile rispetto all’enorme distanza che ci separa da loro. Certo un minimo spostamento può essere rilevato per le stelle più vicine, questo spostamento rilevabile solo per una minima parte di stelle, viene detto parallasse. Se osserviamo il cielo stellato per qualche ora della notte, ci accorgiamo che, se le distanze reciproche non cambiano, tutta la volta celeste si sposta solidalmente durante le ore. Questo moto della volta celeste è apparente, non appartiene alle stelle ma è un effetto della rotazione della Terra intorno al suo asse.
Non è mai stato ovvio pensare ad un moto di rotazione terrestre, perché non ci accorgiamo di tale moto, in realtà ci accorgiamo di uno stato di moto solo quando è presente un’accelerazione (un passeggero di un treno si accorge del moto quando il treno frena o accelera velocemente), ma in un moto uniforme non c’è modo di rendercene conto. Era dunque contrario al senso comune immaginare una Terra in moto, e poche sono le persone in grado di vedere oltre il senso comune cogliendo la verità nascosta.
Se quindi è relativamente facile orientarsi in ogni momento nel cielo delle stelle fisse, non è altrettanto facile farlo con i pianeti. Sappiamo infatti che, come la Terra, anche questi ruotano intorno al Sole secondo delle loro ben precise distanze e traiettorie. I loro periodi di rivoluzione sono diversi e dipendono dalla distanza dal Sole, non sempre dunque i pianeti sono visibili (non lo sono quando i raggi riflessi dal Sole dal pianeta non giungono fino al nostro occhio). Ricordiamo infatti che le stelle brillano di luce propria, la luce viene cioè prodotta da reazioni nucleari che avvengono all’interno, nel nocciolo, della stella. I pianeti non hanno invece la possibilità di innescare tali reazioni e ci appaiono, quando sono visibili, luminosi perché riflettono la luce proveniente dal Sole e a volte a loro luminosità apparente supera quella delle stelle più luminose perché sono molto ma molto più vicini alla Terra rispetto alle stelle. E sono i moti planetari quelli che hanno sempre dato del filo da torcere agli astronomi che non riuscivano a spiegarsi le loro posizioni nel tempo. I modelli cosmologici sono dei tentativi di spiegare queste posizioni. Essendo dunque la situazione delle stelle (dal punto di vista del moto) diversa da quella dei pianeti, era logico immaginare che questi corpi appartenessero a sfere diverse, mosse da ingranaggi diversi. C’è anche da dire che non c’è modo di acccorgerci della differente distanza delle stelle dalla Terra, le stelle delle costellazioni sono in realtà anche molto lontane tra di loro e a diversa distanza dalla Terra ma la prospettiva dalla quale le vediamo ce le fanno apparire come se fossero proiettate su di una sfera, quella che ancora chiamiamo la sfera celeste appunto.
La differente luminosità apparente delle stelle ci dice che tutte uguali non sono, e in effetti un corpo ci appare più luminoso di un altro o , a parità di emissione, se sé più vicino a noi o se emette più luce. E così è per le stelle, Sirio è la stella più luminosa del nostro emisfero (Sole a parte naturalmente) perché il suo rapporto luce emessa/distanza dalla Terra la fa apparire tale. Se non conosciamo la distanza non abbiamo modo di stabilire la luminosità assoluta della stella, quella cioè emessa dalla centrale nucleare del cuore stellare. Ipparco fu forse il più grande astronomo dell’antichità (II secolo a,C) e trascorse la sua vita a catalogare le stelle a seconda della loro luminosità apparente dividendole i sei gradi di magnitudine.
Possiamo ora delineare i tratti più significativi del primo dei tre personaggi che hanno dato una svolta a secoli di studi astronomici.
Tycho, dal naso d’oro, ha letteralmente passato la sua vita ad osservare il cielo stellato, sapeva che per ottenere risultati doveva avere TANTE osservazioni e BUONE osservazioni. Quantità e qualità come mai in precedenza aveva fatto qualcuno.
Per ottenere le TANTE osservazioni aveva fondato una scuola nel castello-osservatorio che si era fatto costruire su misura nell’isola che gli era stata assegnata dal re Federico di Danimarca. Si circondava di decine di giovani apprendisti che passavano la notte a misurare parallassi e posizioni. Le fatiche della veglia notturna erano ripagate da abbondanti banchetti innaffiati da vino quasi sempre in eccesso.
Per ottenere le BUONE osservazioni progettò e fece costruire strumenti di una precisione mai ottenuta in precedenza, strumenti raccolti in una pubblicazione dal nome di Astronomiae instauratae mechanica.
Quantità e ottima qualità aprono le porte al successo scientifico, alla scoperta. Eppure l’infaticabile Tycho alla fine non ha raggiunto risultati paragonabili allo sforzo sostenuto. Imperdonabile poi l’aver perso tanto tempo appresso agli oroscopi, c’è dell’incredibile ma anche questo signor scienziato davvero credeva che le stelle avessero influenza sulla vita del singolo uomo. E, dal momento che questo non è vero, le sue previsioni erano quasi sempre smentite (questione di mera statistica) ed allora Tycho, che certo stupido non era, aveva elaborato una teoria per cui in effetti le stelle sì influivano ma non troppo, l’uomo insomma era dotato di quel tanto di libero arbitrio sufficiente a non denunciare per truffa gli astronomi-astrologi. Adesso i nostri astrologi non elaborano neanche più teorie.
Ciò che fece della sua enorme quantità di dati è stato elaborare il suo sistema cosmologico: il sistema tychonico per l’appunto. Geniale a suo modo: una via di mezzo tra il sistema copernicano e quello tolemaico. Da un lato rimase fedele all’immobilità della Terra, dall’altro affermò che i pianeti ruotano intorno al Sole, pensato esso stesso che ruota intorno alla Terra. Era la teoria di Eraclide Pontico, arricchita di un più moderno apparato scientifico. Ma la grandezza di Tycho non risiede nella parte teorica ma fu quella di aver capito l’importanza della precisione delle misure.
Mentre Tycho Brahe era un uomo dal carattere con luci ed ombre entrambe intense, una personalità forte e carismatica, il signor Johannes Kepler era un uomo molto mite e letteralmente bastonato dalla vita. Passò infatti gran parte della sua esistenza in ristrettezze economiche ma soprattutto perse, uno dopo l’altro quasi tutti i suoi numerosi figli. Le sue terapie furono la scienza e la fede. In effetti lui avrebbe fatto il teologo ma la vita lo portò verso la matematica per la quale aveva uno straordinario talento. Diede importanti contributi, nel campo della fisica elaborando con notevole chiarezza per quell’epoca il concetto di forza e quello di massa, e definì arditamente la gravità come attrazione reciproca del grave da parte della Terra e della Terra da parte del grave. Prese in considerazione l’ipotesi (più tardi elevata da Newton a legge universale) che la forza di attrazione tra due masse sia inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza; ritenne però di doverla respingere. Fu anche competentissimo ottico e matematico geniale, intuendo in questo settore l’importanza del calcolo infinitesimale.
Quando approdò all’astronomia, questa l’accompagnò fino alla fine. Per un breve periodo lavorò come assistente di Tycho, sopportando a fatica, lui uomo mite ed equilibrato, gli eccessi caratteriali e di costume di Tycho, li sopportò perché aveva bisogno dei suoi dati, da ottimo matematico sapeva che non sarebbe arrivato da nessuna parte senza e quindi sopportava in silenzio. In effetti egli divenne l’erede dei dati di Tycho, finalmente libero, poteva disporre a suo piacimento di quel patrimonio. Che emozione doveva essere stata per lui il momento della consegna, da parte della famiglia di Tycho, dei libroni pieni zeppi di numeri. E lui usò quei numeri assai bene. Così come Tycho aveva dedicato una quantità di tempo straordinaria all’osservazione, così Keplero aveva fatto per i calcoli. Notti e notti passate al tavolino a riempire pagine di calcoli, a ripetere gli stessi calcoli per cinquanta, sessanta, settanta volte. Ecco come sono nate le leggi di Keplero , l’enunciato delle quali sta oggi in poche righe, poche righe che hanno segnato la storia della scienza sancendo il primato dei dati rispetto all’immaginazione. Keplero aveva scelto il sistema copernicano ma non fu questo il suo merito, definì invece che LE ORBITE DEI PIANETI SONO TRAIETTORIE ELLITTICHE E NON CIRCOLARI (prima legge di Keplero). Nessuno prima aveva contemplato questa possibilità convinti della perfezione del cerchio, convinti che la natura fosse intrisa di forme geometriche regolari e di numeri perfetti. Perché mai Dio avrebbe dovuto mettere in moto corpi i pianeti su binari ellittici e non circolari? Nessuno ci avrebbe creduto e in effetti non ci credette neanche il grande Galileo, con grande rammarico del povero Keplero che tanto lo ammirava da lontano, che mai fece neanche un accenno a codeste leggi. Le seconda legge di Keplero evidenzia la diversa velocità planetaria in funzione della sua distanza dal Sole e la terza legge regola il periodo di rivoluzione dei pianeti in funzione della loro distanza dal Sole.
Nello stilare il suo modello di sistema planetario, Keplero sposò l’eliocentrismo copernicano e gli diede un’impronta geometrica. L’idea gli venne constatando che il raggio dell’orbita di Giove era pressappoco pari a metà di quello dell’orbita di Saturno (sequenza pianeti a partire dal Sole: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone. Ma gli ultimi tre non erano noti all’epoca di Keplero). Facendo attenzione a tutti gli altri rapporti orbitali costruì idealmente un mondo di orbite che si incastrano alternativamente a i cinque solidi regolari (vedi disegno). Si inizia con la sfera di Saturno che è circoscritta ad un cubo, nel cubo è inscritta la sfera di Giove, che, a sua volta, è circoscritta ad un tetraedro; questo tetraedro è circoscritto alla sfera di Marte che, a sua volta, è inscritta ad un dodecaedro e per circoscrizioni ed inscrizioni successive segue la sfera della Terra, l’icosaedro, la sfera di Venere, l’ottaedro, la sfera di Mercurio, quindi il Sole al centro del sistema. Utilizzò dunque i cinque poliedri regolari definiti in passato “solidi perfetti” o “solidi pitagorici” o ancora “solidi platonici”. La Natura, Dio, la Creazione, la logica matematica permettono solo quei cinque solidi, e non altri. A Keplero parve significativo anche il fatto che ogni solido potesse essere inscritto in una sfera, così che ogni vertice toccasse la superficie interna della sfera. I cinque solidi dettavano le distanze a cui i pianeti dovevano orbitare, cinque solidi che si staccavano da tutti gli altri possibili a causa della loro semplicità, della loro bellezza e perfezione matematica. Era per questo che Dio (Keplero era molto religioso) doveva aver pensato a loro. La ragione per cui c’erano solo sei pianeti – non di più né di meno- era perché c’erano cinque solidi perfetti a dettarne le distanze relative.
Alcuni sostengono che la preoccupazione di Keplero di scoprire l’armonia dell’universo fece di lui una sorta di ultimo mistico medievale. Ma non fu così. Il suo assunto che alla base del mondo ci sia qualche sorta di armonia è diventato uno dei pilastri del metodo scientifico. In effetti esistono molte connessioni come quelle che Keplero stava cercando, le quali sono comprese in un mondo che lui non poteva conoscere. Alcune delle connessioni da lui sperimentate ci appaiono, oggi, del tutto ridicole, ma la cosa più notevole è che egli intendeva sottoporle ad una sperimentazione rigorosa.
E mentre Keplero scopriva le sue leggi , in Italia Galileo Galilei ad un certo punto puntò il cannocchiale verso il cielo cambiando la storia dell’astronomia.
La questione della paternità dell’invenzione del telescopio, cioè se appartiene o meno a lui, ci appare irrilevante rispetto all’idea di usarlo per l’osservazione celeste. In ogni caso Galileo progettò e fece costruire telescopi ben più potenti e funzionali delle versioni precedenti già esistenti.

Copernico e la diffusione del copernicanesimo

Introduzione
Niccolò Copernico era già sul punto di morire quando, nel 1543, i suoi amici pubblicarono la sua unica opera: il De Revolutionibus Orbium caelestium libri IV. L’opera è divisa in sei libri ed il titolo fa riferimento a concetti dell’astronomi antica: per Copernico il termine revolutio denotava le rotazioni costanti e uniformi delle sfere celesti, chiamate orbi, le quali trascinavano con sé i pianeti. Ma l’opera di Copernico fu fu in realtà una vera e propria “rivoluzione”: in astronomia perché cercò elegantemente una questione fondamentale sul movimento dei pianeti e aprì un cammino alla conoscenza delle dimensioni del sistema solare; in fisica perché eliminò l’ipotesi di un centro del mondo e cambiò l’idea della gravitazione; in filosofia, perché apriva la mente ad una nuova concezione del mondo, del quale l’uomo non occupava più “il centro”, e dell’universo immenso e difficile da capire.
Già all’inizio della sua opera, Copernico propone quale fondamento l’ipotesi di un movimento di traslazione della Terra intorno al Sole, e di conseguenza anche uno di rotazione della Terra intorno al proprio asse. Questa concezione è ormai universalmente nota con il nome di “copernicanesimo”. Il resto della sua opera è dedicato a dimostrare che era possibile creare un’intera astronomia , cioè un impianto matematico-descrittivo, basata su questo principio. Conviene subito notare che, alla fine del Cinquecento, gli astronomi accettarono la proposta di Copernico pur ritenendo l’ipotesi fondamentale ancora qualcosa di “assurdo”. Questa astronomia fu presto abbandonata all’inizio del Seicento, perché ancora fondata su molti concetti antichi, come ad esempio lo erano gli “orbi cristallini”. Alla fine del Cinquecento, grazie alle osservazioni del danese Tycho Brahe , vi furono progressi spettacolari che rovesciarono molti vecchi schemi. In compenso si fece strada, se pur lentamente, l’idea dell’eliocentrismo. Con gli studi di Johannes Kepler e di Galileo Galilei, il copernicanesimo diventò il centro di un puro scontro soprattutto tra i filosofi tradizionali di eredità aristotelica e la nuova scienza fisico-matematica, allora nascente, fino a richiedere l’intervento del Sant’Uffizio di Roma.

Il sistema copernicano
1-Lo stato dell’astronomia nel Cinquecento. Parlare dell’astronomia anteriore a Copernico è lo stesso che parlare di Claudio Tolomeo (100-165): questi scrisse nel II secolo d.C. ad Alessandria di Egitto la sua opera principale, conosciuta con il nome di Almagestum (Almagesto), corruzione araba del titolo greco Megale Syntaxis , cioè “grande composizione”. L’Alamagesto era un trattato quasi completo di astronomia, scritto in linguaggio altamente geometrico. Per molti secoli nessuno fu in grado di imitare l’Almagesto , un’opera che rimase in fondo insuperata fino al De Revolutionibus. Dopo la caduta dell’impero romano, l’astronomia, già poco coltivata dai romani, aveva attraversato un lungo periodo di abbandono in Occidente. Le biblioteche erano state distrutte o disperse ed era poco frequente la conoscenza delle opere matematiche ed astronomiche scritte in lingua greca.
Ma l’astronomia greca non fu persa perché coltivata dagli arabi. Finalmente, proprio attraverso di loro, questa letteratura passò in Europa, probabilmente durante l’occupazione araba della Spagna. Tutta l’astronomia del medioevo restava in gran parte ispirata all’opera di Tolomeo, ma liberamente modificata ed aggiornata (vedi Dante).
L’opera di Tolomeo fu quella che probabilmente influenzò maggiormente Copernico ed infatti rappresentò la sua introduzione all’astronomia matematica.
2- Verso l’eliocentrismo. Era evidente che l’astronomia tolemaica necessitava di una profonda revisione, alcune questioni non erano completamente sviluppate, o addirittura presentavano soluzioni erronee. In particolare preoccupava la teoria tolemaica del movimento lunare secondo la quale la distanza terra-luna doveva variare nel corso del ciclo fino ad un rapporto di due ad uno. In conseguenza si sarebbe dovuta osservare una variazione del diametro apparente della luna, cosa che invece non accadeva.
Il modello geometrico più semplice richiedeva che il Sole si muovesse uniformemente lungo un circolo avente per centro la Terra. Però un’accurata osservazione mostrò che il movimento del Sole, ad esempio, non era uniforme lungo le diverse stagioni dell’anno: era questa la cosiddetta “prima anomalia”. Questa si poteva spiegare semplicemente spostando il centro del circolo dal centro della Terra (eccentrica) o , in modo equivalente, facendo orbitare il Sole lungo un piccolo circolo (epiciclo) con centro nel grande circolo (deferente). Ma questo semplice modello non bastava per i pianeti che mostrano uno strano comportamento intorno al loro punto di opposizione (movimento retrogrado).
Copernico non era soddisfatto dello schema tolemaico. La sua principale obiezione era che il modello di Tolomeo non teneva conto dell’assioma ritenuto fondamentale per l’astronomia antica e cioè che “ tutti i movimenti dei cieli devono essere circolari e con velocità uniforme, oppure una composizione di tali movimenti”.
Fu allora che Copernico cominciò a pensare soluzioni alternative, un’astronomia diversa supponendo diverse ipotesi. Per la verità lo stesso Tolomeo dedica il capitolo VII del libro dell’Almagesto all’ipotesi dell’eliocentrismo. Afferma esplicitamente che “questa ipotesi può benissimo spiegare tutti i fenomeni celesti dal punto di vista geometrico”; tuttavia egli non la usa soltanto perché va contro la fisica della caduta dei gravi, i quali tendono al centro della Terra, ma soprattutto perché una rotazione della Terra causerebbe dei grossi disturbi rilevabili sulla sua superficie a causa della forza centrifuga che ne deriva. Dunque l’eliocentrismo non era un’ipotesi nuova nella letteratura astronomica, ma non ebbe seguito perché non vi fu nessuno in grado di costruire un’astronomia matematica alternativa a quella di Tolomeo.

3- Il significato delle “ipotesi” nell’astronomia antica. Gli astronomi erano abituati a fare complicate costruzioni geometriche, perché i loro calcoli numerici fossero il più possibile vicini alle misure osservate. Le prove geometriche e matematiche non avevano nessun valore argomentativi in “cosmologia” (disciplina che apparteneva alla filosofia, non alla matematica), e quindi le prove addotte dagli astronomi non erano tenute in gran conto ai fini di una costruzione di un “sistema del mondo”.
Anche alla luce di questo stato di cose, il De Revolutionibus viene preceduto da un breve scritto in forma di lettera per rispondere alle possibili critiche che l’opera avrebbe potuto suscitare. Questo scritto era anonimo ed ora si ritiene che sia stata opera di Andrea Osiander che, insieme a Rheticus, aveva preparato la prima edizione dell’opera di Copernico. Scrive Osiander: “ E’ proprio dell’astronomo mettere insieme con osservazione diligente e conforme alle regole, la storia dei movimenti celesti; poi le loro cause, ossia – non potendo in alcun modo raggiungere quelle vere – escogitare ed inventare qualunque ipotesi….. Ma non è necessario che queste ipotesi siano vere, e persino nemmeno verosimili, ma è sufficiente questo: che presentino un calcolo conforme alle osservazioni”. Per lo studio della natura degli astri si usava dunque un metodo basato sulla discussione filosofica.
Tutte le costruzioni geometriche o modelli planetari dell’antichità erano frutto di diverse combinazioni che però lasciavano intatta la fisica di Aristotele, insegnata in tutte le università europee dell’epoca. E’ evidente che per Copernico la rotazione e la rivoluzione della Terra dovesse essere qualcosa di reale, cioè doveva trattarsi di ipotesi “fisicamente vere”. Perciò il copernicanesimo si presentò fin dall’inizio come qualcosa di inaccettabile da parte dei filosofi della natura. Dichiarare la rotazione della Terra, eliminare l’idea di un “centro del mondo” , sostenere l’orbita della Terra intorno al Sole, erano osservazioni che suscitavano delle obiezioni di tipo fisico, non c’era ancora un impianto fisico nuovo capace di sovvertire quello aristotelico dotato di grande coerenza interna. Copernico propone un modello di cinematica ma non suggerisce una nuova teoria dinamica (e per questo bisognerà aspettare Isaac Newton).

I rapporti con la filosofia della natura
Copernico era cosciente delle difficoltà fisiche incontrate dall’eliocentrismo. Cercherà ad esempio di rispondere alla problematica degli “effetti centrifughi” che si sarebbero dovuti avvertire sulla superficie della Terra causa del suo moto odi rotazione, osservando che anche le sfere celesti ruotano senza disperdersi nello spazio (usa un’analogia e non una teoria dinamica). Ma la conseguenza più grave dell’eliocentrismo proveniva piuttosto dalla teoria generale del moto aristotelico. Per Aristotele, i corpi gravi o pesanti, tendevano “naturalmente” verso il centro della Terra, mentre quelli leggeri, come il fuoco, si dirigevano invece verso l’alto. Per lui i gravi tendevano al “centro dl mondo”, e non proprio al “centro della Terra”; il centro della Terra giaceva già nel centro del mondo ma senza identificarsi con questo. Ora, se una parte della Terra, o tutta la Terra intera, fosse stata spostata, questa sarebbe comunque nuovamente “caduta” al centro del mondo ma i gravi invece cadono sempre verso il centro della Terra, e questo non è compatibile con una Terra in movimento.
Dal fatto che la Terra non si trovava più al centro del mondo, ne seguiva inevitabilmente un’altra conseguenza per il sistema solare, e cioè che la gravità non è più causata dallo spazio, cioè dalla sua particolare “geometria”, secondo la quale i gravi tendono a cadere al centro del mondo, mentre i leggeri a salire in alto. Ponendo il Sole al centro del mondo e sostenendo il movimento della Terra, Copernico fu allora obbligato ad ipotizzare che il fenomeno della gravitazione fosse una proprietà della materia, una sorta di affinità, di reciproca attrazione.
Gli stessi fenomeni che noi osserviamo sulla Terra si dovrebbero dunque osservare anche sulla superficie degli astri ma egli non sta ancora proponendo una legge di gravitazione universale, ma semplicemente la tendenza di corpi simili a riunirsi; la nuova concezione non era ancora una rottura col passato in merito ad una comprensione della gravità, perché si trattava in fondo di estendere i fenomeni di caduta osservati sulla Terra anche ad altri astri. Il cambio radicale stava piuttosto nel fatto che la “caduta” dei gravi non avveniva più verso il centro del mondo, ma aveva luogo perché i gravi erano attratti dalla massa della Terra.

Diffusione del copernicanesimo
Gli astronomi, dopo la pubblicazione del De Revolutionibus, accettarono con entusiasmo la novità della revisione dell’astronomia operata da Copernico con l’introduzione dei moti circolari uniformi ma non si deve pensare che una volta pubblicato il De Revolutionibus tutti gli astronomi si affrettassero a seguire il nuovo sistema planetario; le cose andarono diversamente.
Erasmus Reinhold (1511-1553) pubblicò, otto anni dopo la morte di Copernico, le Tavole Pruteniche, così chiamate perché dedicate al duca Alberto di Prussia, basate sui dati osservativi del De Revolutionibus, per sostituire le Tavole Alfonsine (1253) non più affidabili. Basta però leggere il prologo delle nuove Tavole per vedere che Reinhold accettava pienamente e con entusiasmo l’astronomia copernicana, aggiungendovi tuttavia: “malgrado le ipotesi assurde”. Fu questo l’atteggiamento generale, scetticismo verso la cosmologia copernicana: il sistema eliocentrico era una pura ipotesi geometrico-matematica, non un nuovo sistema del mondo.
L’astronomia copernicana durò pochi anni perché verso la fine del Cinquecento il grande astronomo danese Tycho Brahe (1546-1601) cominciò un programma di osservazioni molto accurate dalle quali ne derivarono Tavole assai migliori e precise. Lo stesso Brahe avanzò alcune obiezioni ne riguardi del copernicanesimo. Egli notava, ad esempio, che l’assenza di una parallasse annua delle stelle ( il movimento periodico annuale che ogni stella avrebbe dovuto mostrare se osservata dalla Terra quando questa fosse soggetta ad un moto orbitale annuale) obbligava a collocarle ad una distanza in quel momento inimmaginabile. Cosa ci farebbero tanti spazi vuoti nel firmamento? Brahe elaborò un sistema del mondo alternativo che incontrò il favore di molto astronomi soprattutto dopo il decreto del Sant’Uffizio che, nel 1616, vietava di sostenere il copernicanesimo come realtà fisica, permettendone solamente l’utilizzo ex supposizione. Fu invece Keplero il primo astronomo che comprese il contributo più essenziale dell’eliocentrismo.

Filosofia meccanica

Nell’età che va da Copernico a Newton sono presenti sia le macro-scienze che le micro- scienze. Le prime , per esempio l’astronomia planetaria e la meccanica terrestre, hanno a che fare con proprietà e processi che possono essere, più o meno, direttamente osservati e misurati. Le seconde, per esempio l’ottica ed il magnetismo, le teorie sulla capillarità e sul calore, postulano invece delle micro-entità che vengono dichiarate di principio inosservabili. Galileo, Gassendi, Cartesio, Boyle, Hooke, Huygens, Newton parlano tutti di entità che possiedono caratteristiche radicalmente diverse da quelle dei corpi macroscopici che costituiscono il mondo della quotidianità. In questo contesto metafore ed analogie hanno una funzione centrale.
Nella filosofia meccanica la realtà viene ricondotta a una relazione di corpi o particelle materiali in movimento e tale relazione appare interpretabile mediante le leggi del moto individuate dalla statica e dalla dinamica. L’analisi viene quindi ricondotta alle condizioni più semplici e viene realizzata mediante un processo di astrazione da ogni elemento sensibile e qualitativo. La resistenza dell’aria, l’attrito, gli aspetti qualitativi del mondo reale vengono interpretati come irrilevanti, o circostanze disturbanti, per la spiegazione del fenomeno. I fenomeni nella loro particolarità e nella loro immediata concretezza, il mondo delle cose di tutti i giorni ed il mondo delle cose “magiche” del Rinascimento, non esercita più alcun fascino sui sostenitori della filosofia meccanica.
Si fa scienza attraverso modelli per la convinzione che la natura vera delle cose sfugge ai nostri sensi. Il suono, ad esempio, è una vibrazione dell’aria, ma il senso dell’udito ci fa pensare al suono e non al moto dell’aria.
E’ necessario per la scienza passare dall’osservabile all’inosservabile. E’ compito dell’immaginazione concepire il secondo, come in qualche modo simile al primo.
Robert Hooke è uno degli scienziati che nel Seicento partecipano intensamente ai dibattiti sulla costituzione della materia. Egli sostiene che, dal momento che la struttura interna della materia e degli organismi viventi sono inaccessibili ai sensi, la via da percorrere è quella delle analogie tra effetti prodotti da enti ipotetici ed effetti prodotti da cause note perché accessibili ai sensi. Da un’analogia degli effetti possiamo risalire a un’analogia delle cause. Hooke è uno scienziato “baconiano”. Applicando questo metodo fondato su somiglianze, analogie, confronti, egli spiega, tra le altre cose, l’azione dell’aria nei processi di combustione, appica il modello della capillarità alla risalita di fluidi nella circolazione linfatica delle piante.

La meccanica e le macchine

Il termine meccanicismo è una parola elastica, non facilmente definibile in modo univoco e finisce per assumere significati molto vaghi. Possiamo attribuire a questo termine due significati, spesso mescolati insieme o combinati nella nuova visione del mondo. Il primo fa riferimento ad un ordigno o macchina , una visione che considera l’universo simile ad un grande orologio costruito da un Grande Orologiaio, il secondo si riferisce al fatto che gli eventi naturali che costituiscono il mondo possono venir descritti ed interpretati mediante i concetti di quella parte della fisica che viene detta meccanica, cioè la scienza dei movimenti. Con Galilei e con Newton la meccanica è effettivamente diventata un ramo della fisica che studia le leggi del moto (dinamica) e le condizioni di equilibrio dei corpi (statica).
La cosiddetta filosofia meccanica è fondata su alcuni presupposti: 1) la natura non è la manifestazione di un principio vivente, ma è un sistema di materia in movimento retto da leggi; 2) tali leggi sono determinabili con precisione matematica; 3) un numero assai ridotto di tali leggi è sufficiente a spiegare l’universo; 4) la spiegazione dei comportamenti della natura esclude di principio ogni riferimento alle forze vitali o alle cause finali.
Sulla base di questi presupposti spiegare un fenomeno vuol dire costruire un modello meccanico che “sostituisce” il fenomeno reale che si intende analizzare. Questa ricostruzione è tanto più vera quanto più il modello sarà stato costruito solo mediante elementi quantitativi riconducibili alle formulazioni della geometria.
Il mondo immediato dell’esperienza quotidiana non è reale, reali sono la materia ed i movimenti (che avvengono secondo leggi) dei corpuscoli che costituiscono la materia. Il mondo reale è contesto di dati quantitativi e misurabili, di spazio e di movimenti e relazioni nello spazio. Dimensione, forma, stato di movimento dei corpuscoli sono le sole proprietà riconosciute come reali e come principi esplicativi della realtà.
La tesi della distinzione fra le qualità oggettive e soggettive dei corpi è variamente presente in Bacone, Galilei, in Cartesio e Pascal, in Hobbes e Gassendi e Mersenne. Essa costituisce uno dei fondamentali presupposti teorici del meccanicismo.

Nella filosofia meccanica i riferimenti agli orologi, ai mulini, alle fontane, all’ingegneria idraulica sono insistenti e continui. Per secoli era stata accettata l’immagine di un universo non solo creato per l’uomo, ma strutturalmente simile o analogo all’uomo. L’analogia microcosmo-macrocosmo aveva dato espressione ad un’immagine antropormorfica della natura, questa prospettiva viene completamente eliminata dal meccanicismo.
Il metodo del meccanicismo apparve così potente da essere applicato non solo al mondo della natura, a quello degli astri e alla caduta dei gravi, ma anche alla sfera delle percezioni e dei sentimenti degli esseri umani. Le teorie della percezione ad esempio appaiono fondate sull’ipotesi di particelle che, attraverso invisivibili porosità, penetrano negli organi di senso producendo moti che vengono trasmessi dai nervi al cervello.

Cose naturali e cose artificiali:
conoscere e fare

Nell’universo-macchina dei meccanicisti poiché ogni elemento (o “pezzo”) adempie ad una sua specifica funzione ed ogni pezzo è necessario al funzionamento della macchina, nella grande macchina del mondo non ci sono più gerarchie, fenomeni più o meno nobili. Il mondo concepito come un grande orologio fa cadere l’immagine tradizionale del mondo come una sorta di piramide che ha in basso le cose meno nobili ed in alto quelle più vicine a Dio.
Pierre Gassendi (1592-1655) professore di astronomia e matematica, autore di sottili obiezioni alle Meditationes di Cartesio, contrappone all’universo “pieno” cartesiano un universo composto da particelle indivisibili che si muovono nel vuoto. Gassendi è un deciso avversario degli aristotelici e degli occultisti ed è fortemente critico verso i cartesiani. Teorizzava uno scetticismo metafisico in cui il sapere scientifico aveva carattere limitato e provvisorio, solo Dio può conoscere le essenze. L’uomo può conoscere solo quei fenomeni dei quali può costruire modelli o solo quei prodotti artificiali (le macchine) che ha costruito con le sue mani.
La conoscenza delle cause ultime e delle essenze, che è negata all’uomo, è riservata a Dio in quanto creatore o costruttore della macchina del mondo. Dio conosce quel mirabile orologio che è il mondo perché ne è stato il costruttore, l’orologiaio.
Ciò che davvero l’uomo può conoscere è solo ciò che è artificiale. “E’ difficile – scrive per esempio Marin Mersenne- incontrare delle verità nella fisica. Appartenendo l’oggetto della fisica alle cose create da Dio non c’è da stupirsi se non possiamo trovare le loro vere ragioni…[…]..Conosciamo infatti le vere ragioni solo di quelle cose che possiamo costruire con le mani o con l’intelletto”.

Animali, uomini, macchine

Nella fisiologia di Cartesio ciò che è vivente non si pone più come alternativo rispetto a ciò che è meccanico. Gli animali sono macchine. Il riconoscimento di un’esistenza di un’anima razionale serve a tracciare una linea di demarcazione tra le macchine-viventi (gli animali) e alcune particolari funzioni di quelle particolari macchine (uniche nell’universo) che sono gli uomini. Solo questi ultimi infatti sono in grado di pensare e di parlare. Solo queste due funzioni appaiono agli occhi di Cartesio non spiegate in modo soddisfacente.
La saggezza o la capacità di adattarsi all’ambiente non sono dunque per Cartesio doti che le macchine possano acquisire. E lo stesso vale anche per il linguaggio. Macchine parlanti sarebbero (computer) in ogni caso incapaci di coordinare parole per rispondere al significato di ciò che viene loro detto.
L’anima razionale non può quindi derivare tutta la sua potenza dalla materia, ma è stata appositamente creata da Dio. Tutto ciò ( e non è davvero poco) che sta al di sotto della soglia del pensiero e del linguaggio è invece interpretabile secondo i canoni del più rigido meccanicismo. Nell’uomo l’anima ha la sua sede nella ghiandola pineale, vicino alla base del cervello ed essa controlla quei moti muscolari che trasformano i pensieri in azioni e in parole.
Anche il matematico ed astronomo napoletano Giovanni Alfonso Borelli (1608-79) parla di una somiglianza tra automi ed animali semoventi e si richiama alla geometria e alla meccanica come a due scale sulle quali è necessario salire per raggiungere “la meravigliosa scienza del moto degli esseri viventi”. Borelli muove da presupposti di tipo galileiano-cartesiano, solo la meccanica ci svela le leggi della natura, egli respinge ogni interpretazione chimica dei fenomeni fisiologici ed interpreta su basi puramente meccaniche i processi dell’intero organismo , ivi comprese la circolazione del sangue, il, battito cardiaco, la respirazione, la funzione renale.
La medicina- scriverà Denis Diderot nella grande Encyclopédie dell’Illuminismo (alla voce méchanicien) – aveva preso negli ultimi cento anni un aspetto completamente nuovo, aveva assunto un linguaggio del tutto diverso da quello che per moltissimo tempo era stato impiegato.

Si può essere meccanicisti e rimanere cristiani?

I maggiori filosofi naturali del Seicento sostenitori del meccanicismo ammiravano Democrito e gli antichi atomisti e il poeta romano Lucrezio che avevano costruito un’immagine del mondo di tipo meccanico e corpuscolare.Eppure questi pensatori rimasero sempre distanti dalle conseguenze ateistiche che si potevano ricavare dalla tradizione del materialismo. Rifiutavano quelle filosofie che negavano l’opera intelligente di un Creatore ed ascrivevano l’origine del mondo al caso ed al fortuito concorso degli atomi.
L’immagine della macchina del mondo implicava per essi l’idea di un suo Artefice e Costruttore, la metafora dell’orologio rinviava al divino Orologiaio.
I filosofi dai quali prendere le distanze, innumerevoli volte respinti e condannati, sono Thomas Hobbes (1588-1679) e Baruch Spinoza (1632-77) Il primo ha esteso il meccanicismo all’intera vita psichica, ha interpretato il pensiero come una sorta di istinto un po’ più complicato di quello degli animali. Spinoza ha invece fatto dell’estensione un “attributo” di Dio ed ha quindi negato la millenaria distinzione tra un mondo materiale ed un Dio immateriale, ha negato che Dio sia persona e possa avere scopi o disegni.Ha affermato l’inseparabilità tra anima e corpo, ha visto nell’universo una macchina eterna, priva di senso e di scopi.
Termini come hobbista, spinozista, ateo, libertino funzionano spesso, nella cultura del Seicento e del primo Settecento, come sinonimi.
Pierre Gassendi anche se pone gli atomi creati da Dio, apparve a molti pericolosamente vicino alle posizioni dei libertini. Mentre contro di essi polemizza vivacemente Marin Mersenne il quale abbandona la tradizione del pensiero scolastico e si schiera decisamente dalla parte della nuova scienza. Mersenne pensava che la magia naturale, che consentiva all’uomo di compiere “miracoli”, fosse assai più pericolosa, per la tradizione cristiana della nuova filosofia meccanica. Quest’ultima invece poteva essere conciliata con la tradizione cristiana. La tesi del carattere sempre ipotetico e congetturale delle conoscenze scientifiche , ai suoi occhi, lasciava infatti spazio alla dimensione religiosa e alla verità cristiana.
Anche Robert Boyle (1627-91) ha preoccupazioni di questo tipo. Nel momento in cui esalta l’eccellenza della filosofia corpuscolare o meccanica, egli si preoccupa di tracciare due lo linee di demarcazione. La prima deve distinguerlo dai seguaci di Epicureo e di Lucrezio e da tutti coloro che ritengono che gli atomi incontrandosi per caso in un vuoto infinito siano in grado da se stessi di produrre il mondo con i suoi fenomeni. La seconda serve a differenziarlo da coloro che egli chiama “ i meccanicisti moderni” ( che sono poi i cartesiani) per i quali le varie parti della materia (alla quale Dio aveva impresso una quantità invariabile di moto) sarebbero in grado di organizzarsi da sole in un sistema.
La filosofia corpuscolare della quale Boyle si fa sostenitore non va pertanto confusa né con l’epicureismo né con il cartesianesimo. Nel meccanicismo di Boyle il problema della “prima origine delle cose” va tenuto accuratamente distinto da quello del “successivo corso della natura”. Dio non si limita a conferire il moto alla materia, ma guida i movimenti delle singoli parti di essa in modo da inserirle nel “progetto di mondo” che avrebbero dovuto formare. Una volta che l’universo è stato strutturato da Dio e che Dio ha stabilito “ quelle regole del movimento e dell’ordine fra le cose corporee che siamo soliti chiamare Leggi della Natura”, si può affermare che i fenomeni “sono fisicamente prodotti dalle cose meccaniche delle parti della materia e dalle loro reciproche operazioni secondo le leggi della meccanica”.
Per Cartesio invece la scienza è in grado di dire qualcosa non solo su cosa è il mondo, ma anche sul processo della sua formazione. L’alternativa con Boyle è su questo punto radicale. Le strutture del mondo presente, nella prospettiva cartesiana, sono il risultato della materia, del tempo.
Di fronte a queste dottrine e a queste soluzioni, la posizione di Isaac Newton non è lontana da quella assunta da Robert Boyle. La presa di distanza dai possibili esiti ateistici e materialistici del cartesianesimo assumerà in Newton forme diverse ma resterà un tema dominante. Egli è convinto che un “cieco destino” non avrebbe mai potuto far muovere tutti i pianeti allo stesso modo in orbite concentriche e quindi il sistema solare è effetto di un “disegno intenzionale”. I pianeti continuano a muoversi nelle loro orbite per la legge di gravità, ma “ la posizione primitiva e regolare di queste orbite non può essere attribuita a queste leggi”. Le leggi naturali cominciano ad operare solo dopo che l’universo è stato creato. La scienzadi Newton è una descrizione rigorosa dell’universo così come esso è, Newton e i newtoniani non accetteranno mai l’idea che il mondo possa essere stato prodotto da leggi meccaniche.