domenica 9 novembre 2008

Il Seicento astronomico

Il Seicento astronomico

Tre personaggi straordinari hanno segnato questo tempo, tre personaggi che, se solo avessero unito i loro cervelli, la loro passione, la loro infaticabile dedizione all’astronomia, avrebbero…….. chissà.
Parliamo di Tycho Brahe, Keplero e Galileo Galilei.
Prima di parlare delle ricerche di questi tre grandi, riflettiamo un attimo su quella che era la conoscenza astronomica fino a quel momento. Poche cose si possono dire sul cielo stellato senza far uso di strumenti, si può studiare la posizione delle stelle e dei pianeti e la loro luminosità. Niente si può dire invece sulla natura e sulle dinamiche dei corpi celesti. Le stelle, a differenza dei pianeti, ci appaiono fisse nelle loro distanze reciproche e raggruppate in modo da formare le cosiddette costellazioni da sempre studiate dall’uomo. Ma perché le stelle ci appaiono fisse se la Terra gira intorno al Sole? Non dovremmo vedere le stelle spostarsi nel senso opposto al moto di rivoluzione, così come vediamo spostarsi il paesaggio dal finestrino di un treno in corsa? No, non le vediamo spostarsi perché sono lontanissime e lo spostamento terrestre (o meglio il diametro dell’orbita terrestre) è trascurabile rispetto all’enorme distanza che ci separa da loro. Certo un minimo spostamento può essere rilevato per le stelle più vicine, questo spostamento rilevabile solo per una minima parte di stelle, viene detto parallasse. Se osserviamo il cielo stellato per qualche ora della notte, ci accorgiamo che, se le distanze reciproche non cambiano, tutta la volta celeste si sposta solidalmente durante le ore. Questo moto della volta celeste è apparente, non appartiene alle stelle ma è un effetto della rotazione della Terra intorno al suo asse.
Non è mai stato ovvio pensare ad un moto di rotazione terrestre, perché non ci accorgiamo di tale moto, in realtà ci accorgiamo di uno stato di moto solo quando è presente un’accelerazione (un passeggero di un treno si accorge del moto quando il treno frena o accelera velocemente), ma in un moto uniforme non c’è modo di rendercene conto. Era dunque contrario al senso comune immaginare una Terra in moto, e poche sono le persone in grado di vedere oltre il senso comune cogliendo la verità nascosta.
Se quindi è relativamente facile orientarsi in ogni momento nel cielo delle stelle fisse, non è altrettanto facile farlo con i pianeti. Sappiamo infatti che, come la Terra, anche questi ruotano intorno al Sole secondo delle loro ben precise distanze e traiettorie. I loro periodi di rivoluzione sono diversi e dipendono dalla distanza dal Sole, non sempre dunque i pianeti sono visibili (non lo sono quando i raggi riflessi dal Sole dal pianeta non giungono fino al nostro occhio). Ricordiamo infatti che le stelle brillano di luce propria, la luce viene cioè prodotta da reazioni nucleari che avvengono all’interno, nel nocciolo, della stella. I pianeti non hanno invece la possibilità di innescare tali reazioni e ci appaiono, quando sono visibili, luminosi perché riflettono la luce proveniente dal Sole e a volte a loro luminosità apparente supera quella delle stelle più luminose perché sono molto ma molto più vicini alla Terra rispetto alle stelle. E sono i moti planetari quelli che hanno sempre dato del filo da torcere agli astronomi che non riuscivano a spiegarsi le loro posizioni nel tempo. I modelli cosmologici sono dei tentativi di spiegare queste posizioni. Essendo dunque la situazione delle stelle (dal punto di vista del moto) diversa da quella dei pianeti, era logico immaginare che questi corpi appartenessero a sfere diverse, mosse da ingranaggi diversi. C’è anche da dire che non c’è modo di acccorgerci della differente distanza delle stelle dalla Terra, le stelle delle costellazioni sono in realtà anche molto lontane tra di loro e a diversa distanza dalla Terra ma la prospettiva dalla quale le vediamo ce le fanno apparire come se fossero proiettate su di una sfera, quella che ancora chiamiamo la sfera celeste appunto.
La differente luminosità apparente delle stelle ci dice che tutte uguali non sono, e in effetti un corpo ci appare più luminoso di un altro o , a parità di emissione, se sé più vicino a noi o se emette più luce. E così è per le stelle, Sirio è la stella più luminosa del nostro emisfero (Sole a parte naturalmente) perché il suo rapporto luce emessa/distanza dalla Terra la fa apparire tale. Se non conosciamo la distanza non abbiamo modo di stabilire la luminosità assoluta della stella, quella cioè emessa dalla centrale nucleare del cuore stellare. Ipparco fu forse il più grande astronomo dell’antichità (II secolo a,C) e trascorse la sua vita a catalogare le stelle a seconda della loro luminosità apparente dividendole i sei gradi di magnitudine.
Possiamo ora delineare i tratti più significativi del primo dei tre personaggi che hanno dato una svolta a secoli di studi astronomici.
Tycho, dal naso d’oro, ha letteralmente passato la sua vita ad osservare il cielo stellato, sapeva che per ottenere risultati doveva avere TANTE osservazioni e BUONE osservazioni. Quantità e qualità come mai in precedenza aveva fatto qualcuno.
Per ottenere le TANTE osservazioni aveva fondato una scuola nel castello-osservatorio che si era fatto costruire su misura nell’isola che gli era stata assegnata dal re Federico di Danimarca. Si circondava di decine di giovani apprendisti che passavano la notte a misurare parallassi e posizioni. Le fatiche della veglia notturna erano ripagate da abbondanti banchetti innaffiati da vino quasi sempre in eccesso.
Per ottenere le BUONE osservazioni progettò e fece costruire strumenti di una precisione mai ottenuta in precedenza, strumenti raccolti in una pubblicazione dal nome di Astronomiae instauratae mechanica.
Quantità e ottima qualità aprono le porte al successo scientifico, alla scoperta. Eppure l’infaticabile Tycho alla fine non ha raggiunto risultati paragonabili allo sforzo sostenuto. Imperdonabile poi l’aver perso tanto tempo appresso agli oroscopi, c’è dell’incredibile ma anche questo signor scienziato davvero credeva che le stelle avessero influenza sulla vita del singolo uomo. E, dal momento che questo non è vero, le sue previsioni erano quasi sempre smentite (questione di mera statistica) ed allora Tycho, che certo stupido non era, aveva elaborato una teoria per cui in effetti le stelle sì influivano ma non troppo, l’uomo insomma era dotato di quel tanto di libero arbitrio sufficiente a non denunciare per truffa gli astronomi-astrologi. Adesso i nostri astrologi non elaborano neanche più teorie.
Ciò che fece della sua enorme quantità di dati è stato elaborare il suo sistema cosmologico: il sistema tychonico per l’appunto. Geniale a suo modo: una via di mezzo tra il sistema copernicano e quello tolemaico. Da un lato rimase fedele all’immobilità della Terra, dall’altro affermò che i pianeti ruotano intorno al Sole, pensato esso stesso che ruota intorno alla Terra. Era la teoria di Eraclide Pontico, arricchita di un più moderno apparato scientifico. Ma la grandezza di Tycho non risiede nella parte teorica ma fu quella di aver capito l’importanza della precisione delle misure.
Mentre Tycho Brahe era un uomo dal carattere con luci ed ombre entrambe intense, una personalità forte e carismatica, il signor Johannes Kepler era un uomo molto mite e letteralmente bastonato dalla vita. Passò infatti gran parte della sua esistenza in ristrettezze economiche ma soprattutto perse, uno dopo l’altro quasi tutti i suoi numerosi figli. Le sue terapie furono la scienza e la fede. In effetti lui avrebbe fatto il teologo ma la vita lo portò verso la matematica per la quale aveva uno straordinario talento. Diede importanti contributi, nel campo della fisica elaborando con notevole chiarezza per quell’epoca il concetto di forza e quello di massa, e definì arditamente la gravità come attrazione reciproca del grave da parte della Terra e della Terra da parte del grave. Prese in considerazione l’ipotesi (più tardi elevata da Newton a legge universale) che la forza di attrazione tra due masse sia inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza; ritenne però di doverla respingere. Fu anche competentissimo ottico e matematico geniale, intuendo in questo settore l’importanza del calcolo infinitesimale.
Quando approdò all’astronomia, questa l’accompagnò fino alla fine. Per un breve periodo lavorò come assistente di Tycho, sopportando a fatica, lui uomo mite ed equilibrato, gli eccessi caratteriali e di costume di Tycho, li sopportò perché aveva bisogno dei suoi dati, da ottimo matematico sapeva che non sarebbe arrivato da nessuna parte senza e quindi sopportava in silenzio. In effetti egli divenne l’erede dei dati di Tycho, finalmente libero, poteva disporre a suo piacimento di quel patrimonio. Che emozione doveva essere stata per lui il momento della consegna, da parte della famiglia di Tycho, dei libroni pieni zeppi di numeri. E lui usò quei numeri assai bene. Così come Tycho aveva dedicato una quantità di tempo straordinaria all’osservazione, così Keplero aveva fatto per i calcoli. Notti e notti passate al tavolino a riempire pagine di calcoli, a ripetere gli stessi calcoli per cinquanta, sessanta, settanta volte. Ecco come sono nate le leggi di Keplero , l’enunciato delle quali sta oggi in poche righe, poche righe che hanno segnato la storia della scienza sancendo il primato dei dati rispetto all’immaginazione. Keplero aveva scelto il sistema copernicano ma non fu questo il suo merito, definì invece che LE ORBITE DEI PIANETI SONO TRAIETTORIE ELLITTICHE E NON CIRCOLARI (prima legge di Keplero). Nessuno prima aveva contemplato questa possibilità convinti della perfezione del cerchio, convinti che la natura fosse intrisa di forme geometriche regolari e di numeri perfetti. Perché mai Dio avrebbe dovuto mettere in moto corpi i pianeti su binari ellittici e non circolari? Nessuno ci avrebbe creduto e in effetti non ci credette neanche il grande Galileo, con grande rammarico del povero Keplero che tanto lo ammirava da lontano, che mai fece neanche un accenno a codeste leggi. Le seconda legge di Keplero evidenzia la diversa velocità planetaria in funzione della sua distanza dal Sole e la terza legge regola il periodo di rivoluzione dei pianeti in funzione della loro distanza dal Sole.
Nello stilare il suo modello di sistema planetario, Keplero sposò l’eliocentrismo copernicano e gli diede un’impronta geometrica. L’idea gli venne constatando che il raggio dell’orbita di Giove era pressappoco pari a metà di quello dell’orbita di Saturno (sequenza pianeti a partire dal Sole: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone. Ma gli ultimi tre non erano noti all’epoca di Keplero). Facendo attenzione a tutti gli altri rapporti orbitali costruì idealmente un mondo di orbite che si incastrano alternativamente a i cinque solidi regolari (vedi disegno). Si inizia con la sfera di Saturno che è circoscritta ad un cubo, nel cubo è inscritta la sfera di Giove, che, a sua volta, è circoscritta ad un tetraedro; questo tetraedro è circoscritto alla sfera di Marte che, a sua volta, è inscritta ad un dodecaedro e per circoscrizioni ed inscrizioni successive segue la sfera della Terra, l’icosaedro, la sfera di Venere, l’ottaedro, la sfera di Mercurio, quindi il Sole al centro del sistema. Utilizzò dunque i cinque poliedri regolari definiti in passato “solidi perfetti” o “solidi pitagorici” o ancora “solidi platonici”. La Natura, Dio, la Creazione, la logica matematica permettono solo quei cinque solidi, e non altri. A Keplero parve significativo anche il fatto che ogni solido potesse essere inscritto in una sfera, così che ogni vertice toccasse la superficie interna della sfera. I cinque solidi dettavano le distanze a cui i pianeti dovevano orbitare, cinque solidi che si staccavano da tutti gli altri possibili a causa della loro semplicità, della loro bellezza e perfezione matematica. Era per questo che Dio (Keplero era molto religioso) doveva aver pensato a loro. La ragione per cui c’erano solo sei pianeti – non di più né di meno- era perché c’erano cinque solidi perfetti a dettarne le distanze relative.
Alcuni sostengono che la preoccupazione di Keplero di scoprire l’armonia dell’universo fece di lui una sorta di ultimo mistico medievale. Ma non fu così. Il suo assunto che alla base del mondo ci sia qualche sorta di armonia è diventato uno dei pilastri del metodo scientifico. In effetti esistono molte connessioni come quelle che Keplero stava cercando, le quali sono comprese in un mondo che lui non poteva conoscere. Alcune delle connessioni da lui sperimentate ci appaiono, oggi, del tutto ridicole, ma la cosa più notevole è che egli intendeva sottoporle ad una sperimentazione rigorosa.
E mentre Keplero scopriva le sue leggi , in Italia Galileo Galilei ad un certo punto puntò il cannocchiale verso il cielo cambiando la storia dell’astronomia.
La questione della paternità dell’invenzione del telescopio, cioè se appartiene o meno a lui, ci appare irrilevante rispetto all’idea di usarlo per l’osservazione celeste. In ogni caso Galileo progettò e fece costruire telescopi ben più potenti e funzionali delle versioni precedenti già esistenti.

Copernico e la diffusione del copernicanesimo

Introduzione
Niccolò Copernico era già sul punto di morire quando, nel 1543, i suoi amici pubblicarono la sua unica opera: il De Revolutionibus Orbium caelestium libri IV. L’opera è divisa in sei libri ed il titolo fa riferimento a concetti dell’astronomi antica: per Copernico il termine revolutio denotava le rotazioni costanti e uniformi delle sfere celesti, chiamate orbi, le quali trascinavano con sé i pianeti. Ma l’opera di Copernico fu fu in realtà una vera e propria “rivoluzione”: in astronomia perché cercò elegantemente una questione fondamentale sul movimento dei pianeti e aprì un cammino alla conoscenza delle dimensioni del sistema solare; in fisica perché eliminò l’ipotesi di un centro del mondo e cambiò l’idea della gravitazione; in filosofia, perché apriva la mente ad una nuova concezione del mondo, del quale l’uomo non occupava più “il centro”, e dell’universo immenso e difficile da capire.
Già all’inizio della sua opera, Copernico propone quale fondamento l’ipotesi di un movimento di traslazione della Terra intorno al Sole, e di conseguenza anche uno di rotazione della Terra intorno al proprio asse. Questa concezione è ormai universalmente nota con il nome di “copernicanesimo”. Il resto della sua opera è dedicato a dimostrare che era possibile creare un’intera astronomia , cioè un impianto matematico-descrittivo, basata su questo principio. Conviene subito notare che, alla fine del Cinquecento, gli astronomi accettarono la proposta di Copernico pur ritenendo l’ipotesi fondamentale ancora qualcosa di “assurdo”. Questa astronomia fu presto abbandonata all’inizio del Seicento, perché ancora fondata su molti concetti antichi, come ad esempio lo erano gli “orbi cristallini”. Alla fine del Cinquecento, grazie alle osservazioni del danese Tycho Brahe , vi furono progressi spettacolari che rovesciarono molti vecchi schemi. In compenso si fece strada, se pur lentamente, l’idea dell’eliocentrismo. Con gli studi di Johannes Kepler e di Galileo Galilei, il copernicanesimo diventò il centro di un puro scontro soprattutto tra i filosofi tradizionali di eredità aristotelica e la nuova scienza fisico-matematica, allora nascente, fino a richiedere l’intervento del Sant’Uffizio di Roma.

Il sistema copernicano
1-Lo stato dell’astronomia nel Cinquecento. Parlare dell’astronomia anteriore a Copernico è lo stesso che parlare di Claudio Tolomeo (100-165): questi scrisse nel II secolo d.C. ad Alessandria di Egitto la sua opera principale, conosciuta con il nome di Almagestum (Almagesto), corruzione araba del titolo greco Megale Syntaxis , cioè “grande composizione”. L’Alamagesto era un trattato quasi completo di astronomia, scritto in linguaggio altamente geometrico. Per molti secoli nessuno fu in grado di imitare l’Almagesto , un’opera che rimase in fondo insuperata fino al De Revolutionibus. Dopo la caduta dell’impero romano, l’astronomia, già poco coltivata dai romani, aveva attraversato un lungo periodo di abbandono in Occidente. Le biblioteche erano state distrutte o disperse ed era poco frequente la conoscenza delle opere matematiche ed astronomiche scritte in lingua greca.
Ma l’astronomia greca non fu persa perché coltivata dagli arabi. Finalmente, proprio attraverso di loro, questa letteratura passò in Europa, probabilmente durante l’occupazione araba della Spagna. Tutta l’astronomia del medioevo restava in gran parte ispirata all’opera di Tolomeo, ma liberamente modificata ed aggiornata (vedi Dante).
L’opera di Tolomeo fu quella che probabilmente influenzò maggiormente Copernico ed infatti rappresentò la sua introduzione all’astronomia matematica.
2- Verso l’eliocentrismo. Era evidente che l’astronomia tolemaica necessitava di una profonda revisione, alcune questioni non erano completamente sviluppate, o addirittura presentavano soluzioni erronee. In particolare preoccupava la teoria tolemaica del movimento lunare secondo la quale la distanza terra-luna doveva variare nel corso del ciclo fino ad un rapporto di due ad uno. In conseguenza si sarebbe dovuta osservare una variazione del diametro apparente della luna, cosa che invece non accadeva.
Il modello geometrico più semplice richiedeva che il Sole si muovesse uniformemente lungo un circolo avente per centro la Terra. Però un’accurata osservazione mostrò che il movimento del Sole, ad esempio, non era uniforme lungo le diverse stagioni dell’anno: era questa la cosiddetta “prima anomalia”. Questa si poteva spiegare semplicemente spostando il centro del circolo dal centro della Terra (eccentrica) o , in modo equivalente, facendo orbitare il Sole lungo un piccolo circolo (epiciclo) con centro nel grande circolo (deferente). Ma questo semplice modello non bastava per i pianeti che mostrano uno strano comportamento intorno al loro punto di opposizione (movimento retrogrado).
Copernico non era soddisfatto dello schema tolemaico. La sua principale obiezione era che il modello di Tolomeo non teneva conto dell’assioma ritenuto fondamentale per l’astronomia antica e cioè che “ tutti i movimenti dei cieli devono essere circolari e con velocità uniforme, oppure una composizione di tali movimenti”.
Fu allora che Copernico cominciò a pensare soluzioni alternative, un’astronomia diversa supponendo diverse ipotesi. Per la verità lo stesso Tolomeo dedica il capitolo VII del libro dell’Almagesto all’ipotesi dell’eliocentrismo. Afferma esplicitamente che “questa ipotesi può benissimo spiegare tutti i fenomeni celesti dal punto di vista geometrico”; tuttavia egli non la usa soltanto perché va contro la fisica della caduta dei gravi, i quali tendono al centro della Terra, ma soprattutto perché una rotazione della Terra causerebbe dei grossi disturbi rilevabili sulla sua superficie a causa della forza centrifuga che ne deriva. Dunque l’eliocentrismo non era un’ipotesi nuova nella letteratura astronomica, ma non ebbe seguito perché non vi fu nessuno in grado di costruire un’astronomia matematica alternativa a quella di Tolomeo.

3- Il significato delle “ipotesi” nell’astronomia antica. Gli astronomi erano abituati a fare complicate costruzioni geometriche, perché i loro calcoli numerici fossero il più possibile vicini alle misure osservate. Le prove geometriche e matematiche non avevano nessun valore argomentativi in “cosmologia” (disciplina che apparteneva alla filosofia, non alla matematica), e quindi le prove addotte dagli astronomi non erano tenute in gran conto ai fini di una costruzione di un “sistema del mondo”.
Anche alla luce di questo stato di cose, il De Revolutionibus viene preceduto da un breve scritto in forma di lettera per rispondere alle possibili critiche che l’opera avrebbe potuto suscitare. Questo scritto era anonimo ed ora si ritiene che sia stata opera di Andrea Osiander che, insieme a Rheticus, aveva preparato la prima edizione dell’opera di Copernico. Scrive Osiander: “ E’ proprio dell’astronomo mettere insieme con osservazione diligente e conforme alle regole, la storia dei movimenti celesti; poi le loro cause, ossia – non potendo in alcun modo raggiungere quelle vere – escogitare ed inventare qualunque ipotesi….. Ma non è necessario che queste ipotesi siano vere, e persino nemmeno verosimili, ma è sufficiente questo: che presentino un calcolo conforme alle osservazioni”. Per lo studio della natura degli astri si usava dunque un metodo basato sulla discussione filosofica.
Tutte le costruzioni geometriche o modelli planetari dell’antichità erano frutto di diverse combinazioni che però lasciavano intatta la fisica di Aristotele, insegnata in tutte le università europee dell’epoca. E’ evidente che per Copernico la rotazione e la rivoluzione della Terra dovesse essere qualcosa di reale, cioè doveva trattarsi di ipotesi “fisicamente vere”. Perciò il copernicanesimo si presentò fin dall’inizio come qualcosa di inaccettabile da parte dei filosofi della natura. Dichiarare la rotazione della Terra, eliminare l’idea di un “centro del mondo” , sostenere l’orbita della Terra intorno al Sole, erano osservazioni che suscitavano delle obiezioni di tipo fisico, non c’era ancora un impianto fisico nuovo capace di sovvertire quello aristotelico dotato di grande coerenza interna. Copernico propone un modello di cinematica ma non suggerisce una nuova teoria dinamica (e per questo bisognerà aspettare Isaac Newton).

I rapporti con la filosofia della natura
Copernico era cosciente delle difficoltà fisiche incontrate dall’eliocentrismo. Cercherà ad esempio di rispondere alla problematica degli “effetti centrifughi” che si sarebbero dovuti avvertire sulla superficie della Terra causa del suo moto odi rotazione, osservando che anche le sfere celesti ruotano senza disperdersi nello spazio (usa un’analogia e non una teoria dinamica). Ma la conseguenza più grave dell’eliocentrismo proveniva piuttosto dalla teoria generale del moto aristotelico. Per Aristotele, i corpi gravi o pesanti, tendevano “naturalmente” verso il centro della Terra, mentre quelli leggeri, come il fuoco, si dirigevano invece verso l’alto. Per lui i gravi tendevano al “centro dl mondo”, e non proprio al “centro della Terra”; il centro della Terra giaceva già nel centro del mondo ma senza identificarsi con questo. Ora, se una parte della Terra, o tutta la Terra intera, fosse stata spostata, questa sarebbe comunque nuovamente “caduta” al centro del mondo ma i gravi invece cadono sempre verso il centro della Terra, e questo non è compatibile con una Terra in movimento.
Dal fatto che la Terra non si trovava più al centro del mondo, ne seguiva inevitabilmente un’altra conseguenza per il sistema solare, e cioè che la gravità non è più causata dallo spazio, cioè dalla sua particolare “geometria”, secondo la quale i gravi tendono a cadere al centro del mondo, mentre i leggeri a salire in alto. Ponendo il Sole al centro del mondo e sostenendo il movimento della Terra, Copernico fu allora obbligato ad ipotizzare che il fenomeno della gravitazione fosse una proprietà della materia, una sorta di affinità, di reciproca attrazione.
Gli stessi fenomeni che noi osserviamo sulla Terra si dovrebbero dunque osservare anche sulla superficie degli astri ma egli non sta ancora proponendo una legge di gravitazione universale, ma semplicemente la tendenza di corpi simili a riunirsi; la nuova concezione non era ancora una rottura col passato in merito ad una comprensione della gravità, perché si trattava in fondo di estendere i fenomeni di caduta osservati sulla Terra anche ad altri astri. Il cambio radicale stava piuttosto nel fatto che la “caduta” dei gravi non avveniva più verso il centro del mondo, ma aveva luogo perché i gravi erano attratti dalla massa della Terra.

Diffusione del copernicanesimo
Gli astronomi, dopo la pubblicazione del De Revolutionibus, accettarono con entusiasmo la novità della revisione dell’astronomia operata da Copernico con l’introduzione dei moti circolari uniformi ma non si deve pensare che una volta pubblicato il De Revolutionibus tutti gli astronomi si affrettassero a seguire il nuovo sistema planetario; le cose andarono diversamente.
Erasmus Reinhold (1511-1553) pubblicò, otto anni dopo la morte di Copernico, le Tavole Pruteniche, così chiamate perché dedicate al duca Alberto di Prussia, basate sui dati osservativi del De Revolutionibus, per sostituire le Tavole Alfonsine (1253) non più affidabili. Basta però leggere il prologo delle nuove Tavole per vedere che Reinhold accettava pienamente e con entusiasmo l’astronomia copernicana, aggiungendovi tuttavia: “malgrado le ipotesi assurde”. Fu questo l’atteggiamento generale, scetticismo verso la cosmologia copernicana: il sistema eliocentrico era una pura ipotesi geometrico-matematica, non un nuovo sistema del mondo.
L’astronomia copernicana durò pochi anni perché verso la fine del Cinquecento il grande astronomo danese Tycho Brahe (1546-1601) cominciò un programma di osservazioni molto accurate dalle quali ne derivarono Tavole assai migliori e precise. Lo stesso Brahe avanzò alcune obiezioni ne riguardi del copernicanesimo. Egli notava, ad esempio, che l’assenza di una parallasse annua delle stelle ( il movimento periodico annuale che ogni stella avrebbe dovuto mostrare se osservata dalla Terra quando questa fosse soggetta ad un moto orbitale annuale) obbligava a collocarle ad una distanza in quel momento inimmaginabile. Cosa ci farebbero tanti spazi vuoti nel firmamento? Brahe elaborò un sistema del mondo alternativo che incontrò il favore di molto astronomi soprattutto dopo il decreto del Sant’Uffizio che, nel 1616, vietava di sostenere il copernicanesimo come realtà fisica, permettendone solamente l’utilizzo ex supposizione. Fu invece Keplero il primo astronomo che comprese il contributo più essenziale dell’eliocentrismo.

Filosofia meccanica

Nell’età che va da Copernico a Newton sono presenti sia le macro-scienze che le micro- scienze. Le prime , per esempio l’astronomia planetaria e la meccanica terrestre, hanno a che fare con proprietà e processi che possono essere, più o meno, direttamente osservati e misurati. Le seconde, per esempio l’ottica ed il magnetismo, le teorie sulla capillarità e sul calore, postulano invece delle micro-entità che vengono dichiarate di principio inosservabili. Galileo, Gassendi, Cartesio, Boyle, Hooke, Huygens, Newton parlano tutti di entità che possiedono caratteristiche radicalmente diverse da quelle dei corpi macroscopici che costituiscono il mondo della quotidianità. In questo contesto metafore ed analogie hanno una funzione centrale.
Nella filosofia meccanica la realtà viene ricondotta a una relazione di corpi o particelle materiali in movimento e tale relazione appare interpretabile mediante le leggi del moto individuate dalla statica e dalla dinamica. L’analisi viene quindi ricondotta alle condizioni più semplici e viene realizzata mediante un processo di astrazione da ogni elemento sensibile e qualitativo. La resistenza dell’aria, l’attrito, gli aspetti qualitativi del mondo reale vengono interpretati come irrilevanti, o circostanze disturbanti, per la spiegazione del fenomeno. I fenomeni nella loro particolarità e nella loro immediata concretezza, il mondo delle cose di tutti i giorni ed il mondo delle cose “magiche” del Rinascimento, non esercita più alcun fascino sui sostenitori della filosofia meccanica.
Si fa scienza attraverso modelli per la convinzione che la natura vera delle cose sfugge ai nostri sensi. Il suono, ad esempio, è una vibrazione dell’aria, ma il senso dell’udito ci fa pensare al suono e non al moto dell’aria.
E’ necessario per la scienza passare dall’osservabile all’inosservabile. E’ compito dell’immaginazione concepire il secondo, come in qualche modo simile al primo.
Robert Hooke è uno degli scienziati che nel Seicento partecipano intensamente ai dibattiti sulla costituzione della materia. Egli sostiene che, dal momento che la struttura interna della materia e degli organismi viventi sono inaccessibili ai sensi, la via da percorrere è quella delle analogie tra effetti prodotti da enti ipotetici ed effetti prodotti da cause note perché accessibili ai sensi. Da un’analogia degli effetti possiamo risalire a un’analogia delle cause. Hooke è uno scienziato “baconiano”. Applicando questo metodo fondato su somiglianze, analogie, confronti, egli spiega, tra le altre cose, l’azione dell’aria nei processi di combustione, appica il modello della capillarità alla risalita di fluidi nella circolazione linfatica delle piante.

La meccanica e le macchine

Il termine meccanicismo è una parola elastica, non facilmente definibile in modo univoco e finisce per assumere significati molto vaghi. Possiamo attribuire a questo termine due significati, spesso mescolati insieme o combinati nella nuova visione del mondo. Il primo fa riferimento ad un ordigno o macchina , una visione che considera l’universo simile ad un grande orologio costruito da un Grande Orologiaio, il secondo si riferisce al fatto che gli eventi naturali che costituiscono il mondo possono venir descritti ed interpretati mediante i concetti di quella parte della fisica che viene detta meccanica, cioè la scienza dei movimenti. Con Galilei e con Newton la meccanica è effettivamente diventata un ramo della fisica che studia le leggi del moto (dinamica) e le condizioni di equilibrio dei corpi (statica).
La cosiddetta filosofia meccanica è fondata su alcuni presupposti: 1) la natura non è la manifestazione di un principio vivente, ma è un sistema di materia in movimento retto da leggi; 2) tali leggi sono determinabili con precisione matematica; 3) un numero assai ridotto di tali leggi è sufficiente a spiegare l’universo; 4) la spiegazione dei comportamenti della natura esclude di principio ogni riferimento alle forze vitali o alle cause finali.
Sulla base di questi presupposti spiegare un fenomeno vuol dire costruire un modello meccanico che “sostituisce” il fenomeno reale che si intende analizzare. Questa ricostruzione è tanto più vera quanto più il modello sarà stato costruito solo mediante elementi quantitativi riconducibili alle formulazioni della geometria.
Il mondo immediato dell’esperienza quotidiana non è reale, reali sono la materia ed i movimenti (che avvengono secondo leggi) dei corpuscoli che costituiscono la materia. Il mondo reale è contesto di dati quantitativi e misurabili, di spazio e di movimenti e relazioni nello spazio. Dimensione, forma, stato di movimento dei corpuscoli sono le sole proprietà riconosciute come reali e come principi esplicativi della realtà.
La tesi della distinzione fra le qualità oggettive e soggettive dei corpi è variamente presente in Bacone, Galilei, in Cartesio e Pascal, in Hobbes e Gassendi e Mersenne. Essa costituisce uno dei fondamentali presupposti teorici del meccanicismo.

Nella filosofia meccanica i riferimenti agli orologi, ai mulini, alle fontane, all’ingegneria idraulica sono insistenti e continui. Per secoli era stata accettata l’immagine di un universo non solo creato per l’uomo, ma strutturalmente simile o analogo all’uomo. L’analogia microcosmo-macrocosmo aveva dato espressione ad un’immagine antropormorfica della natura, questa prospettiva viene completamente eliminata dal meccanicismo.
Il metodo del meccanicismo apparve così potente da essere applicato non solo al mondo della natura, a quello degli astri e alla caduta dei gravi, ma anche alla sfera delle percezioni e dei sentimenti degli esseri umani. Le teorie della percezione ad esempio appaiono fondate sull’ipotesi di particelle che, attraverso invisivibili porosità, penetrano negli organi di senso producendo moti che vengono trasmessi dai nervi al cervello.

Cose naturali e cose artificiali:
conoscere e fare

Nell’universo-macchina dei meccanicisti poiché ogni elemento (o “pezzo”) adempie ad una sua specifica funzione ed ogni pezzo è necessario al funzionamento della macchina, nella grande macchina del mondo non ci sono più gerarchie, fenomeni più o meno nobili. Il mondo concepito come un grande orologio fa cadere l’immagine tradizionale del mondo come una sorta di piramide che ha in basso le cose meno nobili ed in alto quelle più vicine a Dio.
Pierre Gassendi (1592-1655) professore di astronomia e matematica, autore di sottili obiezioni alle Meditationes di Cartesio, contrappone all’universo “pieno” cartesiano un universo composto da particelle indivisibili che si muovono nel vuoto. Gassendi è un deciso avversario degli aristotelici e degli occultisti ed è fortemente critico verso i cartesiani. Teorizzava uno scetticismo metafisico in cui il sapere scientifico aveva carattere limitato e provvisorio, solo Dio può conoscere le essenze. L’uomo può conoscere solo quei fenomeni dei quali può costruire modelli o solo quei prodotti artificiali (le macchine) che ha costruito con le sue mani.
La conoscenza delle cause ultime e delle essenze, che è negata all’uomo, è riservata a Dio in quanto creatore o costruttore della macchina del mondo. Dio conosce quel mirabile orologio che è il mondo perché ne è stato il costruttore, l’orologiaio.
Ciò che davvero l’uomo può conoscere è solo ciò che è artificiale. “E’ difficile – scrive per esempio Marin Mersenne- incontrare delle verità nella fisica. Appartenendo l’oggetto della fisica alle cose create da Dio non c’è da stupirsi se non possiamo trovare le loro vere ragioni…[…]..Conosciamo infatti le vere ragioni solo di quelle cose che possiamo costruire con le mani o con l’intelletto”.

Animali, uomini, macchine

Nella fisiologia di Cartesio ciò che è vivente non si pone più come alternativo rispetto a ciò che è meccanico. Gli animali sono macchine. Il riconoscimento di un’esistenza di un’anima razionale serve a tracciare una linea di demarcazione tra le macchine-viventi (gli animali) e alcune particolari funzioni di quelle particolari macchine (uniche nell’universo) che sono gli uomini. Solo questi ultimi infatti sono in grado di pensare e di parlare. Solo queste due funzioni appaiono agli occhi di Cartesio non spiegate in modo soddisfacente.
La saggezza o la capacità di adattarsi all’ambiente non sono dunque per Cartesio doti che le macchine possano acquisire. E lo stesso vale anche per il linguaggio. Macchine parlanti sarebbero (computer) in ogni caso incapaci di coordinare parole per rispondere al significato di ciò che viene loro detto.
L’anima razionale non può quindi derivare tutta la sua potenza dalla materia, ma è stata appositamente creata da Dio. Tutto ciò ( e non è davvero poco) che sta al di sotto della soglia del pensiero e del linguaggio è invece interpretabile secondo i canoni del più rigido meccanicismo. Nell’uomo l’anima ha la sua sede nella ghiandola pineale, vicino alla base del cervello ed essa controlla quei moti muscolari che trasformano i pensieri in azioni e in parole.
Anche il matematico ed astronomo napoletano Giovanni Alfonso Borelli (1608-79) parla di una somiglianza tra automi ed animali semoventi e si richiama alla geometria e alla meccanica come a due scale sulle quali è necessario salire per raggiungere “la meravigliosa scienza del moto degli esseri viventi”. Borelli muove da presupposti di tipo galileiano-cartesiano, solo la meccanica ci svela le leggi della natura, egli respinge ogni interpretazione chimica dei fenomeni fisiologici ed interpreta su basi puramente meccaniche i processi dell’intero organismo , ivi comprese la circolazione del sangue, il, battito cardiaco, la respirazione, la funzione renale.
La medicina- scriverà Denis Diderot nella grande Encyclopédie dell’Illuminismo (alla voce méchanicien) – aveva preso negli ultimi cento anni un aspetto completamente nuovo, aveva assunto un linguaggio del tutto diverso da quello che per moltissimo tempo era stato impiegato.

Si può essere meccanicisti e rimanere cristiani?

I maggiori filosofi naturali del Seicento sostenitori del meccanicismo ammiravano Democrito e gli antichi atomisti e il poeta romano Lucrezio che avevano costruito un’immagine del mondo di tipo meccanico e corpuscolare.Eppure questi pensatori rimasero sempre distanti dalle conseguenze ateistiche che si potevano ricavare dalla tradizione del materialismo. Rifiutavano quelle filosofie che negavano l’opera intelligente di un Creatore ed ascrivevano l’origine del mondo al caso ed al fortuito concorso degli atomi.
L’immagine della macchina del mondo implicava per essi l’idea di un suo Artefice e Costruttore, la metafora dell’orologio rinviava al divino Orologiaio.
I filosofi dai quali prendere le distanze, innumerevoli volte respinti e condannati, sono Thomas Hobbes (1588-1679) e Baruch Spinoza (1632-77) Il primo ha esteso il meccanicismo all’intera vita psichica, ha interpretato il pensiero come una sorta di istinto un po’ più complicato di quello degli animali. Spinoza ha invece fatto dell’estensione un “attributo” di Dio ed ha quindi negato la millenaria distinzione tra un mondo materiale ed un Dio immateriale, ha negato che Dio sia persona e possa avere scopi o disegni.Ha affermato l’inseparabilità tra anima e corpo, ha visto nell’universo una macchina eterna, priva di senso e di scopi.
Termini come hobbista, spinozista, ateo, libertino funzionano spesso, nella cultura del Seicento e del primo Settecento, come sinonimi.
Pierre Gassendi anche se pone gli atomi creati da Dio, apparve a molti pericolosamente vicino alle posizioni dei libertini. Mentre contro di essi polemizza vivacemente Marin Mersenne il quale abbandona la tradizione del pensiero scolastico e si schiera decisamente dalla parte della nuova scienza. Mersenne pensava che la magia naturale, che consentiva all’uomo di compiere “miracoli”, fosse assai più pericolosa, per la tradizione cristiana della nuova filosofia meccanica. Quest’ultima invece poteva essere conciliata con la tradizione cristiana. La tesi del carattere sempre ipotetico e congetturale delle conoscenze scientifiche , ai suoi occhi, lasciava infatti spazio alla dimensione religiosa e alla verità cristiana.
Anche Robert Boyle (1627-91) ha preoccupazioni di questo tipo. Nel momento in cui esalta l’eccellenza della filosofia corpuscolare o meccanica, egli si preoccupa di tracciare due lo linee di demarcazione. La prima deve distinguerlo dai seguaci di Epicureo e di Lucrezio e da tutti coloro che ritengono che gli atomi incontrandosi per caso in un vuoto infinito siano in grado da se stessi di produrre il mondo con i suoi fenomeni. La seconda serve a differenziarlo da coloro che egli chiama “ i meccanicisti moderni” ( che sono poi i cartesiani) per i quali le varie parti della materia (alla quale Dio aveva impresso una quantità invariabile di moto) sarebbero in grado di organizzarsi da sole in un sistema.
La filosofia corpuscolare della quale Boyle si fa sostenitore non va pertanto confusa né con l’epicureismo né con il cartesianesimo. Nel meccanicismo di Boyle il problema della “prima origine delle cose” va tenuto accuratamente distinto da quello del “successivo corso della natura”. Dio non si limita a conferire il moto alla materia, ma guida i movimenti delle singoli parti di essa in modo da inserirle nel “progetto di mondo” che avrebbero dovuto formare. Una volta che l’universo è stato strutturato da Dio e che Dio ha stabilito “ quelle regole del movimento e dell’ordine fra le cose corporee che siamo soliti chiamare Leggi della Natura”, si può affermare che i fenomeni “sono fisicamente prodotti dalle cose meccaniche delle parti della materia e dalle loro reciproche operazioni secondo le leggi della meccanica”.
Per Cartesio invece la scienza è in grado di dire qualcosa non solo su cosa è il mondo, ma anche sul processo della sua formazione. L’alternativa con Boyle è su questo punto radicale. Le strutture del mondo presente, nella prospettiva cartesiana, sono il risultato della materia, del tempo.
Di fronte a queste dottrine e a queste soluzioni, la posizione di Isaac Newton non è lontana da quella assunta da Robert Boyle. La presa di distanza dai possibili esiti ateistici e materialistici del cartesianesimo assumerà in Newton forme diverse ma resterà un tema dominante. Egli è convinto che un “cieco destino” non avrebbe mai potuto far muovere tutti i pianeti allo stesso modo in orbite concentriche e quindi il sistema solare è effetto di un “disegno intenzionale”. I pianeti continuano a muoversi nelle loro orbite per la legge di gravità, ma “ la posizione primitiva e regolare di queste orbite non può essere attribuita a queste leggi”. Le leggi naturali cominciano ad operare solo dopo che l’universo è stato creato. La scienzadi Newton è una descrizione rigorosa dell’universo così come esso è, Newton e i newtoniani non accetteranno mai l’idea che il mondo possa essere stato prodotto da leggi meccaniche.

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