Scoperta e distillazione dell’ossigeno
Nell’estate del 1774, in Inghilterra, Joseph Priestley scoprì che riscaldando il residuo calcinato di mercurio (l’ossido mercurico rosso) si liberava un’« aria» che, stranamente, sembrava perfino più forte o pura dell’aria comune:
«Una candela bruciava in quest’aria con fiamma sorprendentemente forte; e un pezzetto di legno portato al calor rosso crepitava e bruciava con rapidità prodigiosa, mostrando un aspetto simile, per certi versi, a quello del ferro incandescente al calor bianco, ed emettendo scintille in tutte le direzioni ».
Affascinato, aveva indagato ulteriormente il fenemeno, scoprendo che in questa atmosfera i topi sopravvivevano quattro o cinque volte più a lungo. A questo punto, sicuro che la sua nuova «aria» fosse di natura benigna, aveva provato a respirarla lui stesso:
«La sensazione che avvertivo nei polmoni non era percettibilmente diversa da quella causata dall’aria comune; ma credo che per qualche tempo, in seguito, il mio respiro fosse particolarmente facile e leggero. Chissà che in futuro quest’aria pura non possa diventare un lusso alla moda? Finora, solo due topi, e io stesso, abbiamo avuto il privilegio di respirarla ».
Nell’ottobre del 1774, Priestley si recò a Parigi per parlare dell’ « aria deflogisticata » con Lavoisier. E Lavoisier vide in essa ciò che lo stesso Priestley non aveva colto: la chiave per arrivare a capire la vera natura di quanto accadeva durante la combustione e la calcinazione,’ una cosa che fino a quel momento lo aveva sconcertato senza che riuscisse a venirne a capo. Lavoisier ripeté gli esperimenti di Priestley, li ampliò, li quantificò e li perfezionò. La combustione, ormai era chiaro, non comportava affatto la perdita di una sostanza (il flogisto), ma implicava piuttosto la combinazione del materiale combustibile con una parte dell’aria atmosferica, un gas per il quale egli coniò il termine ossigeno.
La dimostrazione di Lavoisier, e cioè che la combustione era un processo chimico - un’ossidazione, diremmo oggi, aveva molte altre implicazioni, e per lui rappresentò solo un frammento nel panorama, ben più ampio, di quella rivoluzione della chimica che aveva previsto. Arrostendo i metalli in storte chiuse, e dimostrando che non aveva luogo alcun evanescente incremento ponderale derivante da « particelle di fuoco », né alcuna diminuzione conseguente a perdita di flogisto, Lavoisier aveva dimostrato che in tali processi non c’era né creazione né distruzione di materia. Per di più questo principio di conservazione valeva non solo per la massa totale dei prodotti e dei reagenti, ma per ciascuno dei singoli elementi coinvolti.
La conservazione della massa implicava la costanza dei processi di composizione e decomposizione. Ciò indusse Lavoisier a definire « elemento » un materiale non ulteriormente scomponibile con i mezzi esistenti; poté così compilare (insieme a Guyton de Morveau e ad altri) un primo elenco di autentici elementi: trentatré sostanze semplici distinte e non scomponibili, che andavano a rimpiazzare i Quattro Elementi degli antichi. In tal modo fu in grado, per usare le sue parole, di tracciare un « bilancio », ovvero di tenere una precisa contabilità per ciascun elemento coinvolto in una reazione.
Sacks O., “Zio Tungsteno“, Adelphi, pag. 133
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