Il modo migliore per presentare il biochimico americano Kary B. Mullis, che sarà illustre ospite venerdì di Bergamo Scienza, è, credo, il seguente: nel preciso momento in cui avete iniziato a leggere questa frase, in un qualche laboratorio biologico del mondo, un tecnico ha appena iniziato, o ha appena terminato, una reazione di polimerizzazione a catena (in breve, per gli iniziati, Pcr cioè Polymerase Chain Reaction ). E’ un metodo rapido ed efficace, ormai del tutto automatizzato e poco costoso, per ottenere miliardi di copie fedelissime da un qualsiasi frammento di Dna, nell’arco di poche ore. Quel frammento potrebbe, per esempio, essere un gene raro, o una parte di esso, da ricombinarsi poi con qualche altro frammento o gene. Mullis escogitò questo piccolo grande prodigio un venerdì sera del 1983, mentre guidava la sua auto lungo la statale 128 della California, nei boschi tra Berkeley e Mendocino. Già perfezionato e diffuso fin dal 1985, gli valse il Premio Nobel per la chimica nel 1993, diviso con l’inglese (ma poi americanizzato) Michael Smith, inventore di una tecnica volta a produrre mutanti genetici in modo estremamente mirato. La Pcr (che in inglese si pronuncia pisiaar ) è stata così definita dal capo del progetto genoma, Mark Hughes: «La tecnologia biologica più importante degli ultimi cento anni». Sui siti web specializzati, sui manuali di ingegneria genetica, nei buoni salotti californiani e ormai perfino nei libri di testo delle superiori non si lesinano, per la Pcr, aggettivi come «rivoluzionaria», «risolutiva», «di geniale semplicità», «di grande eleganza».
Inizio questa mia intervista con Mullis per il Corriere chiedendogli che effetto fa aver inventato la tecnologia biologica più innovativa degli ultimi cento anni. Sorride: «Non avrei mai immaginato, all’inizio, l’enorme diffusione che questa invenzione avrebbe avuto. Allora io lavoravo alla Cetus (preciso per il lettore che si tratta della prima "corporation" di bio-ingegneria della storia, e probabilmente tuttora la più famosa, situata nei pressi di San Francisco, ndr ) e tentavo di amplificare in modo specifico, senza errori, in laboratorio, delle sequenze naturali di Dna. Cominciai a fare copie di copie di copie. Ma era un disastro, in quanto gli errori di sequenza si moltiplicavano senza controllo. Ed era, inoltre, una procedura noiosissima, basata su cicli di raffreddamento e riscaldamento dei prodotti e dell’enzima specifico che duplica il Dna in natura (aggiungo io qui per chiarezza: la polimerasi del Dna, appunto. Quella che spiega la lettera P della Pcr)».
Qui Mullis si ferma un attimo e sorride di nuovo: «La sorte volle che, all’altro estremo del corridoio dei laboratori Cetus, lavorasse un’eccellente biochimica, Sharon Shoemaker, intenta a studiare le fermentazioni e dedicatasi a convertire masse di residui biologici in alcool. Sharon lavorava con enzimi estratti da batteri che sono detti termofili, perché sopportano temperature assai elevate senza alcun danno biologico. La polimerasi di questi batteri resiste alla temperatura di un bagno molto caldo, mentre, a quella temperatura, il Dna si srotola, si scinde in due eliche distinte e complementari, ciascuna delle quali può darne un’altra e queste darne altre due e così via, appunto, in una reazione a catena».
Mullis non specifica, perché è per lui ovvio, che fu proprio la geniale introduzione di questo enzima, resistente alle alte temperature, a rendere possibile la Pcr. Il cacio che lui aggiunse a questi caldi maccheroni di Dna furono delle sequenze chimiche addizionali, in testa e in coda del gene che interessa, che si riconoscono e si appaiano tra di loro specificamente, un ciclo dopo l’altro. Il resto è storia recente.
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