Mediatori e recettori nervosi
Sino all’inizio del Novecento, i progressi nelle conoscenze sul sistema nervoso erano in gran parte legati agli sviluppi nell’anatomia e fisiologia: gli anatomisti studiavano cellule e fibre nervose, mentre i fisiologi analizzavano i rapporti tra nervo e muscolo e le caratteristiche della conduzione nervosa, il modo in cui l’impulso elettrico viaggia verso il suo bersaglio muscolare, inducendo la contrazione.
Con il Novecento emerse un altro fondamentale aspetto della funzione nervosa: si comprese infatti che i neuroni inducevano la contrazione del muscolo non per trasmissione diretta dell’impulso elettrico, ma grazie alla liberazione di sostanze chimiche in grado di agire sulla superficie muscolare eccitandola.
Oggi sappiamo che queste sostanze chimiche – i mediatori nervosi- assicurano la comunicazione tra una faccia e l’altra faccia della cosiddetta fessura sinaptica, una separazione quasi virtuale tra neurone e muscolo e tra neurone e neurone. In questo piccolissimo spazio vengono liberati i mediatori dal neurone presinaptico: in questo modo il segnale elettrico viene convertito in segnale chimico. Per giungere a queste conoscenze ci vollero diversi decenni di sperimentazione e discussioni così come ci volle molto tempo per capire che i fenomeni che avvenivano in periferia, tra nervo e muscolo, avvengono anche a livello cerebrale in modo che le diverse funzioni del cervello dipendono strettamente da un gioco di mediatori e modulatori a livello delle sinapsi.
Il dibattito maggiore era tra i sostenitori della comunicazione sinaptica di tipo esclusivamente elettrico e tra coloro che portavano avanti l’ipotesi chimica. Negli anni Trenta del Novecento , la maggior parte dei fisiologi riteneva che tutte le sinapsi fossero elettriche e che il flusso di corrente attraversasse lo spazio sinaptico per eccitare l’organo-bersaglio. I farmacologi invece ritenevano che tutte le sinapsi si scambiassero l’informazione attraverso molecole chimiche, i mediatori nervosi appunto. La posizione dei farmacologi si basava sulla loro esperienza dell’azione di blocco che alcune sostanze chimiche esercitano sugli effetti del mediatore nervoso, sostanze che possono potenziare o inibire la trasmissione sinaptica in quanto esercitano un sinergismo o competono con la molecola del mediatore nervoso.
Solo negli anni Cinquanta vennero delle indicazioni sperimentali che indicarono chiaramente che soltanto alcune sinapsi particolari utilizzano la conduzione elettrica, mentre la maggior parte utilizza un mediatore nervoso, dimostrando che i farmacologi avevano ragione.
La strada per arrivare a queste conclusioni fu lunga e faticosa. Negli anni Venti si arrivò alla conclusione che il sistema simpatico contenesse una sostanza, la “simpatina”, i cui effetti sarebbero stati simili a quelli dell’adrenalina (epinefrina per gli anglosassoni) di origine surrenale. Nel 1946 si identificò la simpatina con la noradrenalina che venne isolata nei nervi simpatici, nei surreni (che contengono soprattutto adrenalina) e in seguito in alcuni neuroni cerebrali.
Altri studiosi si dedicarono invece allo studio del sistema parasimpatico che favorisce il recupero delle risorse (mentre il simpatico mobilita le energie dell’organismo), ad esempio col rallentamento del ritmo cardiaco. Il grande fisiologo inglese Henry Dale dimostrò, negli anni Trenta, che l’acetilcolina era il mediatore del sistema nervoso parasimpatico periferico (detto per questo anche colinergico), ma pochi anni dopo si dimostrò che i neuroni colinergici esistevano anche nel cervello.
L’acetilcolina e la noradrenalina appartengono ad una ben più vasta famiglia di mediatori nervosi e lo studio di tali sostanze permise di sintetizzare molecole agoniste ed antagoniste che agiscono a livello cerebrale modificando il comportamento, in altre parole psicofarmaci.
Gli scienziati si posero poi le domande sul meccanismo di azione dei mediatori. In quale sito della membrana di un muscolo o di un neurone agiva una molecola come l’acetilcolina per svolgere un’azione eccitante? Le “chiavi” che agivano su questi siti erano estremamente specifiche oppure esistevano anche dei passepartout cioè molecole in grado di aprire diversi tipi di recettori?
La ricerca sui recettori nervosi ha dimostrato che le cellule rispondono a segnali chimici in quanto la membrana che le riveste è provvista di molecole proteiche che si legano a una specifica molecola – il mediatore nervoso – o a una molecola molto simile. I recettori hanno un’elevata affinità per la molecola con cui interagiscono che va ad incastrarsi su una determinata proteina della membrana cellulare come una chiave di sicurezza si inserisce in una determinata toppa di serratura. Tuttavia la stessa molecola chimica può inserirsi su proteine lievemente differenti: ciò comporta che una data molecola eserciti effetti diversi a seconda delle cellule su cui agisce in quanto su cellule diverse ci possono essere recettori diversi. Ad esempio l’acetilcolina, agendo su due diversi tipi di recettore, stimola la contrazione delle cellule dei muscoli scheletrici ma deprime la contrazione delle cellule del muscolo cardiaco. Qualche cosa di simile avviene anche a livello dei neuroni: alcuni di essi hanno un tipo di recettori su cui il mediatore nervoso agisce producendo effetti eccitatori ed altre persone ne hanno un altro tipo su cui lo stesso mediatore produce effetti inibitori. La nicotina ad esempio (che agisce sui recettori dell’acetilcolina) può rilassare alcuni ed esercitare un effetto eccitante su altri, a seconda del tipo di recettori che caratterizzano un dato individuo.
Un altro importante risultato nell’ambito delle neuroscienze è stata la scoperta che l’azione del mediatore è condizionata dalla presenza di altre sostanze, che vengono chiamate modulatori. Tra i modulatori ci sono anche le endorfine, o oppioidi endogeni, che fanno parte di una vasta famiglia di sostanze che attivano o inibiscono enzimi che servono per fabbricare un secondo messaggero nervoso. Questo processo, che va sotto il nome di modulazione nervosa, comporta una cascata di eventi che durano nel tempo a amplificano l’azione del mediatore: in altre parole, mentre il mediatore nervoso si limita a produrre un effetto di breve durata, come se esso accendesse o spegnesse un interruttore, grazie alla modulazione gli effetti possono essere duraturi e far sì che l’azione del mediatore sia più o meno efficace. I derivati dell’oppio agiscono in modo specifico, la morfina ad esempio agisce prevalentemente su alcune strutture nervose implicate nel dolore e nella sensazione di piacere imitando funzioni già presenti nel nostro organismo quali la capacità di resistere al dolore o di provare piacere. I derivati dell’oppio occupano i siti recettoriali delle molecole endogene cioè prodotte dal nostro organismo.
La trasmissione nervosa a livello delle sinapsi può essere di tipo rapido o lento.Quella rapida si basa sul fatto che i mediatori agiscono sui recettori , cioè su proteine della membrana cellulare, inducendo la liberazione di un’altra proteina, la proteina G che, a sua volta, agisce su una cosiddetta proteina-canale. Quest’ultima è una specie di diaframma che aprendosi lascia passare all’interno della cellula nervosa lo ione sodio, il che eccita elettricamente il neurone. La trasmissione sinaptica lenta , si basa invece sul fatto che le proteine G attivano una cascata di enzimi che, a loro volta, agiscono sulle proteine-canale grazie alla produzione di molecole che riescono a modificare l’apertura o la chiusura dei canali della membrana attraverso cui passano gli ioni quando il mediatore agisce sul recettore.
Sulla superficie della membrana dei neuroni non ci sono solo le molecole dei recettori dei mediatori ma anche altri particolari recettori su cui agiscono molecole in grado di promuovere un’azione trofica, cioè di promuovere la crescita e la sopravvivenza del neurone o di alcune delle sue strutture, come ad esempio dendriti e sinapsi che servono a connettere le cellule nervose tra di loro. I fattori trofici svolgono un ruolo importante sia nel corso dello sviluppo, quando prendono forma i circuiti nervosi, sia nel corso delle età successive, quando è necessario stabilizzare alcuni circuiti o impedire che i neuroni muoiano a ritmo troppo elevato.
Uno dei fattori trofici più noti è il fattore di crescita nervosa o NGF (Nerve Growth Factor), una proteina scoperta da Rita Levi-Montalcini. L’NGF , come altri fattori di crescita, esercita la sua azione su cellule immature appartenenti al sistema: sotto l’azione del fattore di crescita, i neuroni sviluppano una folta chioma di prolungamenti dendritici. Ricerche successive hanno mostrato che i neuroni in corso di sviluppo che non riescono a formare la giunzione sinaptica con le proprie cellule-bersaglio possono morire, mentre sopravvivono se nel tessuto viene iniettato l’NGF.
L’NGF, che si fissa su appositi recettori membranali, non è importante solo per assicurare la sopravvivenza delle cellule nervose, ma anche per dirigere le fibre dei neuroni verso le cellule-bersaglio che attraggono la porzione terminale della fibra, il cosiddetto “cono di crescita”, producendo NGF. I fattori neurotrofici sono perciò importanti nei processi plastici, cioè in tutte quelle situazioni dove si verifica una ristrutturazione dell’architettura del sistema nervoso per formare nuovi circuiti o per riparare i danni che derivano da lesioni diverse.
Nuove strategie per studiare il cervello
Gli studi sul sistema nervoso sono stati possibili grazie alla disponibilità di tecniche sempre più selettive e potenti. Ad esempio la registrazione dell’attività elettrica cerebrale è iniziata nel 1929, grazie alla messa a punto della tecnica dell’elettroencefalografia , che consente di registrare le variazione di potenziale delle aree superficiali e profonde del cervello tramite elettrodi disposti sulla superficie cranica. E’ stato necessario attendere la metà del Novecento per poter registrare l’attività elettrica di un singolo neurone tramite elettrodi sottilissimi in grado di penetrare all’interno di una cellula nervosa senza danneggiarla. Attraverso questa tecnica i ricercatori hanno potuto correlare i potenziali elettrici (potenziali di azione) di una sinapsi nervosa con le modifiche ioniche del sodio e del potassio: è stato così possibile dimostrare che è l’ingresso nella cellula di alcuni ioni (come il sodio) che provoca un’eccitazione elettrica (depolarizzazione).
Dal punto di vista del cervello nel suo insieme, lo sviluppo di tecniche non invasive è stato fondamentale per individuare i nuclei e le aree corticali coinvolte in una determinata funzione: partendo da tecniche radiologiche (TAC, Tomografia Assiale Computerizzata) si è arrivati a visualizzare le aree cerebrali e il loro metabolismo in vivo con la tecnica della Tomografia a Emissione di Positroni (PET, Positron Emission Tomography), basata sull’uso di sostanze marcate con radioisotopi , o con la tecnica della Visualizzazione a Risonanza Magnetica (NMR, Nuclear Magnetic Resonance), che non si basa né sull’uso di raggi X, come la TAC, né sull’uso di radioisotopi come la PET, e non sottopone quindi l’organismo a fonti di radiazioni.
Queste tecniche hanno permesso di tracciare una cartografia funzionale del cervello , ad esempio individuare con precisione le aree della corteccia coinvolte nelle funzioni motorie, nella sensibilità, nel linguaggio, in operazioni numeriche, nella presa di decisione, nell’attenzione, nell’emozione e via dicendo; ma ciò non significa che queste aree siano le uniche sedi in cui si svolge una particolare funzione né che la descrizione della sede – cioè del dove- possa prescindere da una teoria del come quell’area o il cervello siano coinvolti in un’attività particolare. La crescente disponibilità di carte funzionali del cervello deve anzi renderci cauti rispetto ad una lettura piattamente fisicalista della mente umana, una lettura che cioè si esaurisca alla descrizione del “dove” senza tener conto del “come” e del “perché”.
Negli ultimi anni l’approccio basato sulla biologia molecolare ha permesso di raccogliere numerosi dati sui rapporti tra geni e sviluppo del sistema nervoso normale e patologico, e sul ruolo delle proteine espresse nel cervello; accanto alle proteine che svolgono un ruolo patologico, ve ne sono altre che possono svolgerne uno patologico, come ad esempio le molecole anomale di mielina che normalmente isola la fibra nervosa, o quelle di una proteina, l’amiloide, che inducono la morte neurale in malattie come il morbo di Alzheimer. Queste alterazioni della biochimica cerebrale comportano malattie nervose come le sclerosi o comportamentali come le demenze. Il loro studio si basa soprattutto sulla possibilità di realizzare animali transgenici nel cui menoma è stato cioè inserito un gene umano, responsabile di una malattia del sistema nervoso. Il passo finale, una volta compresa la dinamica della malattia, è quella di correggerne il difetto genetico attraverso una terapia genica, ovverosia tramite la sostituzione del gene difettoso con uno sano. Alcuni risultati su topi sono molto incoraggianti circa la possibilità della terapia genica di contrastare malattie cerebrali.
La questione dell’io
Oggetto di studio delle neuroscienze è soprattutto il cervello ed è fin troppo ovvio ricordare come questo organo sia diverso dagli altri: non pensiamo con il nostro cervello come vediamo con i nostri occhi o afferriamo le cose con le nostre mani. Le informazioni sul funzionamento del cervello ci vengono dalla scienza: l’uomo neurale viene affidato ad uno scienziato che potrebbe assumere un ruolo che non gli compete. E’ciò su cui il filosofo Paul Ricoeur ci mette in guardia: da un possibile slittamento dal materialismo metodologico al materialismo dottrinale, ontologico, e si interroga su una prospettiva in cui ogni sapere che riguardi l’essere umano dipenda dal sapere neuroscientifico.
I critici del riduzionismo spinto sostengono perciò che mente e cervello siano due entità distinte (dualismo).
Nell’ambito delle neuroscienze sono al lungo convissute posizioni moniste e dualiste secondo cui mente e cervello sarebbero rispettivamente un tutt’uno o due entità distinte. Al giorno d’oggi la maggior parte dei neuroscienziati adotta un’ottica fortemente riduzionistica , e il fatto che mente e cervello coincidano rappresenta un aspetto quasi implicito di questa disciplina.
Il problema , per i biologi che cercano di comprendere il funzionamento del cervello è che, contrariamente ai loro colleghi che studiano il cuore o il rene, non possono affrontare i problemi che hanno di fronte senza impegnarsi in questioni di tipo filosofico:qualunque studio sul cervello si confronta immediatamente con il problema mente-corpo. Di fronte a questo scoglio, la maggior parte dei neurobiologi ha preso una posizione di dualismo moderato secondo cui lo stato fisico del cervello è causa del mentale che, di per sé, non ha invece efficacia causale. La metafora più usuale dei sostenitori dell’epifenomeno è quello della locomotiva a vapore con il suo fischio, prodotto dalla macchina come il pensiero lo è dal cervello. Il problema di questa soluzione è che essa non spiega come gli stati mentali possano avere effetto sugli oggetti fisici, come ad esempio la mia intenzione di muovermi faccia sì che si attivino i neuroni della corteccia motoria che provocano il movimento.
Secondo i fautori di un approccio monista che rigettano l’ipotesi dell’epifenomeno, la sola posizione materialista coerente è quella che considera il mentale e il neurale come due aspetti dello stesso stato fisico materiale: la mente non causa uno stato fisico del cervello né è causata, in quanto i concetti di causa ed effetto non si applicano a due aspetti dello stesso stato.
Il tema, più spinoso, della coscienza è spesso trascurato dai neuroscienziati che, in molti casi, sostengono che parlare di coscienza sia un’illusione metafisica mentre ciò che ha significato sono i comportamenti manifesti, misurabili e quantificabili con gli strumenti del riduzionismo.
Oltre alla coscienza restano insoluti scientificamente altri problemi, ad esempio come si può spiegare il passaggio da un’immagine mentale ad un’altra, cioè l’attenzione che io posso provare per questo o quell’evento, esterno o interno che sia? Al centro del problema della mente e del cervello c’è il fatto del controllo dell’io volontario (intenzionalità). Ad esempio, io posso smettere di scrivere queste parole, pensare al film che vedrò stasera o inseguire un ricordo: un solo stato per volta è nella mia mente. Chi ha scelto quello stato? Io indubbiamente: il problema centrale delle neuroscienze è quello dell’io. Per i dualisti il soggetto, l’io, non coincide con l’oggetto, il cervello, l’io abiterebbe soltanto mentre secondo altri sarebbe un’espressione del cervello o coinciderebbe con esso.
Malgrado quindi il progredire del sapere scientifico, resta quindi aperto un problema centrale, quello che il filosofo Joseph Levine ha definito “gap esplicativo”, riferendosi soprattutto alla coscienza, ai qualia, le nostre sensazioni soggettive del mondo. Anche se le neuroscienze ci dicono giustamente che i processi mentali dipendono dal gioco dei mediatori
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1 commento:
'Giorno Prof!
Questa è la lezione da studiare per giovedì 28 febbraio?
Risponda presto!
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